La politica della domanda e la fine del liberismo
di Francesco Bochicchio
Il trionfo liberista degli ultimi trent’anni si è basato su una precisa svolta culturale, ideologica e politica. Sulla base delle teorie di Friedman e della impostazione monetarista e “supply-side” (della scuola) di Chicago, il tutto rafforzato dagli assunti intellettualmente più robusti di Hayek, si è sancito che la politica riformista e sociale avesse esaurito la propria spinta propulsiva per inadeguatezza della teoria economica sottostante, quella keynesiana basata sulla politica della domanda. Negli ultimi trent’anni si è conseguentemente portata avanti la politica dell’offerta, per cui l’impresa economica è in grado di sostenere autonomamente lo sviluppo economico, l’importante è che la si liberi di ostacoli e elementi ostativi (i famosi “lacci e lacciuoli” di cui parlava da ben prima Guido Carli): l’iniziativa pubblica è solo distorsiva ed è inutile anche per creare la domanda; l’importante è che il prelievo fiscale sia ridotto al minimo tanto per non scoraggiare l’iniziativa economica individuale privata quanto per non sottrarre alla domanda privata i necessari mezzi. Deve essere ben chiaro che la riduzione del prelievo fiscale per sostenere la domanda nulla ha a che fare con la politica della domanda, in quanto si tratta di impedire distorsioni del processo di formazione della ricchezza alimentato dall’offerta privata, mentre la politica della domanda attiene alla domanda innescata da un autonomo intervento pubblico, affatto indipendente rispetto all’offerta privata (il riferimento alla riduzione del prelievo fiscale quale elemento della politica della domanda effettuato recentemente da Giavazzi è quindi quanto meno equivoco). Nella posizione della politica dell’offerta non vi è il punto forte, ed un po’ rozzo, della legge di Say, per cui ogni offerta crea autonomamente la propria domanda, legge confutata magistralmente dai classici e in particolare da Marx, ma in ogni caso si basa una priorità dell’offerta e su un rapporto armonico con la domanda. Problemi di instabilità e di contraddizioni del sistema nella politica dell’offerta non esistono. Ebbene trent’anni di liberismo hanno invece dimostrato, con l’esito fallimentare degli ultimi anni, che l’offerta non è sufficiente e che le storture del sistema rendono necessario un intervento pubblico che sostenga la domanda: la domanda può essere finanziata dalla mano pubblica (investimenti pubblici diretti) o dalla mano privata ma nel secondo caso in virtù di interventi pubblici che sono affatto indipendenti dall’offerta privata in quanto sostengono il “welfare” o il salario o i diritti dei lavoratori (di qui il perspicuo riferimento del Governatore Visco a “investimenti privati e pubblici”). In definitiva, la politica della domanda è affatto alternativa rispetto alla politica dell’offerta, per contenuti ma a monte per presupposti, in quanto la politica della domanda si basa sull’insufficienza totale dell’offerta privata ed a monte sulla presenza di elementi distorsivi sottostanti all’offerta privata che richiedono un intervento pubblico correttivo e rientrante in una logica alternativa rispetto a quella della stessa offerta privata. Poi che la logica alternativa non sia sostitutiva ma correttiva e direttiva è pacifico ma, è una correzione che richiede interventi conflittuali. Poi che la politica della domanda comporti anche interventi di sostegno all’offerta è pacifico ma si tratta di interventi a sostegno che proprio perché basati su una logica correttiva richiedono una politica economica ed una programmazione economica pubblica. La sinistra in materia economica si deve basare sulla politica della domanda, ma è opportuno evidenziare che questa è stata elaborata da Keynes, liberale progressista. Da tale constatazione banale discendono dei punti basilari. La politica della domanda è la base di ogni politica economica della sinistra ma non ha origini propriamente di sinistra ed è nata per esigenze di salvezza del sistema. Pertanto, la parte più illuminata della destra e del centro non può non accettarla necessariamente, anche se tende a darne una visione edulcorata e annacquata, mentre la sinistra non è mai riuscita a gestirla completamente e liberamente: la politica della domanda è pertanto, nella concretezza, un momento contingente di ricorso del capitalismo a qualcosa di autonomo e per molti versi incompatibili per l’incapacità del capitalismo stesso a uscire dalle crisi in virtù delle sue solo dinamiche, ma proprio per questo temporaneo e da utilizzare essenzialmente in via anticiclica. La sinistra utilizza la politica della domanda ma senza avere il possesso dei suoi esatti termini e quindi senza inserirla armonicamente al suo interno, in modo da finire così per esserne gestita. Ma non solo, nella politica della domanda, proprio nell’impostazione keynesiana, il sostegno del lavoro e delle sue ragioni, occupazionali, economiche e di diritti, è fondamentale ma senza che il lavoro diventi un vero protagonista economico, in quanto solo semplice beneficiario di interventi di sostegno per la sua idoneità a suscitare domanda, e quindi con la sua tutela solo strumentale e non intrinseca: di qui la tendenza irrefrenabile a ridimensionare detta tutela alla prima occasione. La politica della domanda è necessaria per la sinistra, ma le sfugge di controllo. Di qui la necessità di una analisi profonda, che costringa la sinistra ad una verifica critica, di grande interesse in quanto apre le contraddizioni altrettanto profonde all’interno della destra e fornisce alla sinistra stessa un campo di azione illimitato. La politica della domanda è ormai accettata quale inevitabile: il fulcro del pensiero keynesiano e delle impostazioni socialdemocratiche, demonizzato dal liberismo, è accettato da tutti, ma proprio tutti: la consacrazione definitiva viene da settori insospettabili per la loro autorevolezza e per il non essere suscettibili di condizionamento da parte di istanze di sinistra. In particolare, negli ultimi giorni, due sono state le prese di posizione inequivocabili. Da un lato, nelle “Considerazioni finali” della Relazione annuale del Governatore di Banca d’Italia, a pag. 22 (nella parte finale, visto che le pagine sono 23), si legge testualmente “Siamo anche consapevoli che alla crescita della produttività, troppo a lungo stagnante, deve accompagnarsi quella della domanda, dei redditi delle famiglie, da sostenere con nuove opportunità di lavoro. Servono investimenti, privati e pubblici, nazionali ed europei”. Più chiaro di così il Governatore Visco non poteva essere: ciò al termine di considerazioni dure ed efficaci, che investono tutto il sistema economico, anche nel settore bancario, che richiede maggiore efficienza e competitività ed una revisione della struttura di “corporate governance”, revisione essenziale in quanto questa struttura è obsoleta ed antiquata ed inidonea a consentire l’oggettività dell’organizzazione aziendale, invece risolta nelle convenienze del gruppo di potere; ebbene, al termine di detta lucida ed impietosa analisi, il Governatore ha evidenziato che la politica dell’offerta, basata sull’efficienza delle imprese e quindi sulla produttività, è insufficiente senza una forte domanda, la quale quindi viene creata non dall’offerta stessa e dal libero gioco di mercato, ma da un elemento estraneo al mercato stesso, vale a dire dal sostegno dell’offerta mediante investimenti indotti dalla politica pubblica e mediante la salvaguardia del lavoro, in termini sia di occupazione sia di livello dei salari e stipendi. Draghi, d’altro canto, ha fatto sì che la Bce da lui presieduta lanciasse una serie di misure del tutto radicali e per alcuni versi, almeno sotto l’aspetto non strettamente tecnico ma di visione generale sottostante (soprattutto per una Banca centrale), molto innovative, con tassi (sia pur leggermente) negativi sui depositi e con rifinanziamenti massicci a mediolungo termine (LTRO) e infine con l’acquisto dalle banche di titoli ABS, vale a dire di titoli rappresentativi di operazioni di cartolarizzazioni di crediti “scomodi”. In tal modo, una Banca centrale utilizza i propri poteri di politica monetaria in un’ottica espansiva e rilancio dell’economia, vale a dire in un’ottica che è di politica economica “tout court” e va oltre la stabilità, propria della politica monetaria tradizionale: l’obiettivo è rappresentato da uno sviluppo e da un equilibrio sociale complessivo, il che è particolarmente ragguardevole tenendo conto che si tratta di una Banca centrale dotata di poteri molto minori di quelli usuali. Occorre, inoltre, tener presente che si tratta di una politica economica inequivocabilmente keynesiana tesa a penalizzare i rendimenti finanziari, e che si colloca nell’ottica squisitamente keynesiana di impedire al capitale di essere remunerativo a qualsiasi costo. Visco e Draghi si collocano nella stessa direzione di marcia, che è in controtendenza rispetto alla politica liberista accolta in tutto l’Occidente. La critica della linea rigoristica imposta dalla Merkel all’Europa e in particolare ai Paesi deboli si pone in un’ottica di sviluppo economico, ma non solo economico, ma anche sociale e antiliberista. Ciò non per ragioni sociali ma nella lucida consapevolezza che lo sviluppo economico è impossibile senza l’abbandono del liberismo e senza quindi l’adozione incondizionata di un’ottica sociale. Quindi, adesso che anche Draghi e Visco abbracciano la politica della domanda nessuno, ragionevole ed anche appartenente al potere economico e politico, può assumere una posizione contraria. La conclusione è inevitabile: la politica della domanda è per tutti, e proprio per tutti, ma, paradossalmente, non per tutto: non è un giuoco di parole, ma è un punto di sostanza. Ed infatti, la critica che si può e si deve porre a Draghi e Visco è di mancanza di consequenzialità e di completezza in quanto con arresto brusco di fronte a due passi decisivi da compiere ed invece nemmeno abbozzati ed addirittura contrastati. In primo luogo, non si evidenzia che investimenti privati e pubblici, per essere efficaci, non possono essere lasciati al mercato, ma devono essere coordinati da una programmazione che vieti alcuni investimenti, inefficienti e speculativi, e ne imponga altri. In secondo luogo, non si evidenzia che politiche di mercato del lavoro basate sul precariato e sulla piena concorrenza, abbattendo diritti e portando al ribasso il livello salariale, sono del tutto incompatibili con una politica della domanda, in quanto deprimono le famiglie e fanno affidamento, evidentemente, sul basarsi su una piena efficienza dell’impresa: ed infatti Visco auspica che si vada avanti sul piano della riforma del lavoro in senso liberista, il che come visto è del tutto illusorio e contraddittorio. Visco e Draghi si fermano qui in quanto il capitale che essi rappresentano non ha in questo momento la forza ed il coraggio di fare autocritica e di abbracciare in modo consequenziale e coerente e sistematico l’unica politica in grado di salvarci dal disastro: ed infatti i due punti sono in totale contrasto con l’interesse, a breve e miope, del capitale. Ma senza questi due punti, la politica della domanda si ferma e diventa impossibile. E’ qui che la sinistra riformista ed antiliberista gioca la propria occasione. La politica della domanda ha una sua essenza insuscettibile di interscambiabilità: presuppone l’insufficienza del mercato e dell’impresa produttiva nel trovare autonomamente la propria domanda (confutazione della legge di Say, secondo cui ogni offerta trova armonicamente la propria domanda). Da qui consegue che è necessario un intervento pubblico non solo a supporto di quello privato e nemmeno di mera integrazione ma di profonda correzione di questi ed addirittura sostitutivo in una parte fondamentale, l’impulso all’economia e conseguentemente il suo indirizzo. L’intervento pubblico si caratterizza per due elementi necessari: I) il sostegno dei redditi dei ceti deboli; II) la correzione degli assetti di mercato e dell’attività delle imprese private. Sul primo punto, occorre abbandonare ogni approccio liberista sul mercato del lavoro ed ogni approccio che rifiuti, snobbi o comunque ridimensioni una politica di redistribuzione dei redditi, considerata frutto di valutazioni sociali e conseguentemente del tutto inutile se non dannosa, in quanto il mercato da solo viene giudicato idoneo a trovare il proprio equilibrio anche sociale: la redistribuzione dei redditi in senso sociale ed equitativo è invece assolutamente necessaria. Sul secondo punto, le correzioni vanno effettuate sia con divieto di comportamento abusivi sia con sostegno agli investimenti ed alla ricerca tecnologica: sul divieto di comportamenti abusivi sembrerebbe un profilo di natura legale e di correttezza con rilevanza economica del tutto limitata, mentre il sostegno agli investimenti ed all’innovazione ed alla ricerca tecnologica è condiviso anche dai liberisti e rientra nella politica dell’offerta, di supporto alle imprese e di rimozione degli ostacoli alla loro azione. Deve essere chiaro, al contrario ed anzi all’esatto contrario, che invece si parte dalla constatazione che lo squilibrio è connaturato al capitalismo ed all’economia di mercato, con la conseguenza indefettibile che l’intervento dal lato dell’offerta deve consistere nell’eliminazione di storture e nell’introduzione di profonde correzione di natura esterna al mercato in quanto le storture sono interne al mercato ed alla sua logica. E’ un intervento organico che rivitalizzi la domanda con un intervento sociale equitativo e con il rilancio del lavoro, nella sua componente economica e di diritti e con la centralità del sindacato quale unica forma di rappresentanza dello stesso lavoro, e intervenga sull’offerta finalizzandola alla domanda ed impedendole di sottomettere il lavoro e di basarsi su storture. Per un intervento organico del genere è necessaria una programmazione pubblica che abbia al proprio centro la Banca Centrale per controllare i flussi monetari e impedire che l’intermediazione finanziaria si trasformi in speculazione, ma da questo centro si dipani poi armonicamente per un indirizzo globale dell’offerta ed un’ottimale ripartizione di flussi finanziari tra i vari settore, con l’impresa che resta l’unico operatore economico del sistema e quindi viene espressamente riconosciuta e tutelata ma quale centro aggregatore dei fattori dell’offerta in funzione delle esigenze della domanda e quindi quale fattore operante in un sistema il cui equilibrio deve essere assicurato “ab externo” ed imposto all’impresa, abbandonando ogni pretesa, del tutto velleitaria, che l’equilibrio sia assicurato dal mercato che viene invece dominato dall’impresa stessa a proprio piacimento e secondo arbitrio. L’impresa deve abbandonare ogni pretesa di dominio ed essere un fattore del sistema ma senza dominarlo e senza diventare essa stessa sistema, altrimenti essa sovrasta ogni prospettiva e possibilità di equilibrio che, subordinato alle sue esigenze, diventa solo effimera e fittizia. In sintesi: ogni politica della domanda non può fare a meno di una politica dell’offerta, ma quale subordinata e marginale, quale sua mera appendice. La politica della domanda non è un cavallo di Troia dell’anticapitalismo, ma è l’iniezione di antidoti forti all’ipertrofia del capitale e quindi è una correzione con direzione ed indirizzo di questi; ha elementi di anticapitalismo finalizzati a una revisione profonda del capitalismo stesso (e non al suo abbandono) in modo da assicurare un sistema veramente misto ed un vero patto tra produttori. La politica della domanda è necessaria in quanto il sistema è in crisi e il mercato e l’impresa non sono più autosufficienti (non è un caso che il Governatore Visco parli di “domanda privata e pubblica”), ma nessuno ha il coraggio di condurla alle sue logiche e stringenti conseguenze, come si è tentato di fare qui, e in particolare nessuno ha il coraggio di evidenziare che la politica della domanda è incompatibile con l’assetto liberista del mercato del lavoro, in quanto si ha ancora l’illusione che sia possibile un intervento pubblico indirizzato a rafforzare il dominio della grande impresa privata, vale a dire un interevento pubblico vassallo di quello privato. Per usare una perifrasi è una cura terapeutica per guarire un drogato mediante iniezione di dosi massicce della droga più pericolosa: ciò invece di impedire al drogato di usare droga di qualsivoglia genere. La politica della domanda è necessaria, e non solo politicamente in quanto è l’unico via alternativa al liberismo che non solo ha fallito, ma addirittura ha portato il capitalismo al disastro. Tale disastro è ormai inevitabile e quindi la politica della domanda è addirittura necessaria, anzi necessitata, anzi indefettibile. Dall’altro la politica della domanda è l’unica forma di politica economica della sinistra, ma è eterogenea rispetto alla sinistra in quanto nata quale forma di liberalismo progressista e finalizzata a fungere da puntello del sistema. Di qui la complessità della politica della domanda, con le sue contraddizioni soprattutto per lo schieramento moderato, che la persegue ma la vuole ridurre al minimo, trasfigurandola ed alterandola, ma anche per la sinistra che la tratta con entusiasmo ma con l’imbarazzo della reciproca estraneità. Di qui l’incapacità della sinistra di mettere con le spalle al muro la parte migliore dello schieramento avverso (Draghi, Visco, ma anche Savona) mostrando che una politica della domanda che accetti o comunque non bandisca la liberalizzazione del mercato del lavoro è un controsenso, logico, economico e politico. Ma storicamente, l’incapacità della sinistra di andare oltre una logica meramente congiunturale ed anticiclica della politica della domanda è il vero punto esiziale che la ha posta in condizioni di non difenderla quando è stata abbandonata. E più in generale la sinistra non ha avuto mai la forza di impedire che il controllo del livello dei salari, necessario per rispettare le compatibilità economiche, andasse oltre tale rispetto per diventare uno strumento del capitale di governo della forza lavoro, in un’ottica meramente unilaterale: non si trascura con ciò che la migliore impostazione keynesiana non socialista (Ugo la Malfa) pensasse alla politica dei redditi, di tutti i redditi e non solo di quelli del lavoro, e quindi ad un’ottica non unilaterale, ma una politica dei redditi senza programmazione globale non era idonea, e non per il vecchio motivo tipico del Pci della solidarietà nazionale che era necessario che i lavoratori controllassero da un punto di vista politica l’utilizzo del controllo salariale, ma per la ragione ben più profonda che senza una direzione energica dell’iniziativa economica da parte della mano pubblica con conseguente correzione profonda dei meccanismi di mercato il controllo dei salari diventava del tutto unilaterale in quanto la politica dei redditi diventava uno strumento docilmente manovrabile da parte del capitale e facile da eludere nella parte per lo stesso (in via pretesa) vincolante. In definitiva, il controllo dei salari come controllo delle compatibilità non deve diventare uno strumento del capitale e di qui le debolezze intrinseche della politica della domanda (magistrale sul punto fu Claudio Napoleoni): deve limitarsi a costituire un elemento costitutivo delle compatibilità economiche e dell’efficienza economica. La politica della domanda è quindi di per sé complessa, anzi ambivalente e addirittura ambigua: è essa stessa ad essere Giano bifronte, e non sono solo Draghi e Visco a fungere da tali. Sui singoli profili si rimanda ai vari paragrafi: due nodi generali devono essere evidenziati alla fine dell’analisi. In primo luogo, in Keynes la tutela del lavoro è fondamentale e va oltre le ambiguità presenti: ma è una tutela del lavoro come componente principale dei soggetti cui far attivare la domanda, il lavoro è strumentale al consumo ed i lavoratori sono visti come consumatori. E’ una tutela quale mezzo e quale strumento e non intrinseca e quindi chiaramente utilitaristica: quello che più conta è che il lavoro, e con esso i lavoratori, non è visto quale soggetto economico e sociale ma quale oggetto, o meglio ancora quale soggetto ininfluente che in tanto acquista rilievo in quanto diventi consumo, con la conseguenza precipua che la liberazione del lavoro e lo spostamento di asse dal capitale al lavoro non sono nemmeno presi in considerazione. La natura sociale e di sinistra della politica della domanda è meramente di condiscendenza graziosa: la sinistra deve impossessarsi della politica della domanda ma la deve staccare dal terreno naturale per innestarla sul terreno proprio della stessa sinistra. In secondo luogo, la politica della domanda, grazie essenzialmente a Keynes, è essenziale non solo per le caratteristiche che si sono viste ma perché per la sua globalità è l’unica in grado di soddisfare l’ansia di sistema della sinistra: ma ciò, è bene ribadirlo, in quanto la politica della domanda persegue l’efficienza del sistema, e quindi costringe la sinistra ad una sfida, quella dell’efficienza economica, efficienza economica che la sinistra ha spesso trascurato ed addirittura tratta con noncuranza, considerandola quale mera copertura del capitale (su questo, come notò Colletti, vi è una non chiarezza di Marx, che oscilla tra la critica dell’economia politica capitalistica e l’economia politica “tout court”, oscillazione degna di grande rispetto, in quanto l’economia politica è nata con il capitalismo, con la conseguenza che una economa politica alternativa deve passare per la distruzione di quella del capitalismo, ma distruzione non fine a sé stessa ma come sostituzione con una più elevata e razionale, ed il guaio è che tale messaggio si è perso con i disattenti epigoni di Marx). Il lavoro non deve diventare inefficiente e non deve scivolare verso forme di assenteismo o disinteresse con tendenza verso il tempo libero che niente altro è che il terreno più favorevole al consumismo proprio della politica della domanda. Il lavoro deve diventare il