Il lavoro subordinato, fino a qualche decennio fa, è sempre stato identificato con un luogo, uno spazio, un capo o un imprenditore, un’azienda, un ente pubblico, un insieme di lavoratori organizzati, di operai che prestano mansioni fisiche o mansioni intellettuali. Oggi questo mondo è destinato a diventare storia.
Nell’era della globalizzazione molti lavoratori hanno perso l’occupazione e molti giovani fanno fatica a trovarne una. Nell’era della digitalizzazione, molti e in numero sempre crescente, meglio definiti lavoratori “intermittenti”, svolgono uno o più “lavoretti” per sopravvivere, in una gara al ribasso sul fronte delle remunerazioni e delle protezioni sociali. Si tratta di attività temporanee, interinali e saltuarie, prive di qualsiasi tutela. Il mondo del lavoro che abbiamo conosciuto è diventato un mercato, dove i lavoratori hanno perso l’identità, considerati alla stregua delle merci che circolano sul mercato e, come le merci stesse, sono diventati mobili. Anche il linguaggio nei termini di lavoro è profondamente cambiato. Vengono adottati sempre più spesso anglicismi come smart working, sharing economy, flexsecurity, gig-economy, riders.
Ma non c’è nulla di “smart”. La gig-economy non è altro che una serie di lavoretti dove la professionalità acquisita con anni di studi o di pratica non serve a nulla. I riders sono dei fattorini, in maggioranza giovani tra i ventidue e i trent’anni, oggi anche quarantenni che hanno perso il lavoro, per i quali la consegna in bici è spesso l’unica fonte di reddito. Il lavoro è diventato “agile” e il lavoratore deve riciclarsi continuamente e, adeguarsi a un mondo in continua trasformazione, così, la “formazione continua” risulta essere fine a sé stessa già superata dal nuovo contesto. Un laureato che spende almeno 17 dei suoi primi 26 anni, alla fine della sua formazione, si ritrova in un contesto profondamente cambiato, che fa? Deve rincorrere un lavoretto. Perché oggi l’economia è quella delle app. Anche lo smart working, oltre che nel privato, diffuso anche nel pubblico impiego, trasferisce i costi dell’azienda alla famiglia, con una commistione del lavoro di ufficio al lavoro domestico, soprattutto per le donne, con bambini o con familiari bisognosi di assistenza. La Didattica a Distanza si intreccia con lo smart working dei genitori, che aumenta lo stress psicologico nel nucleo familiare. La pandemia non ha fatto che accelerare e accrescere la gig-economy che vede moltiplicarsi il fatturato di alcune piattaforme, vedi Amazon, mentre molte insegne si spengono per non riaccendersi mai più. La piattaforma, in cambio di un profitto puro, funziona da intermediario tra un cliente e un lavoratore.
La globalizzazione, internet e la digitalizzazione, propagandate come “terre promesse” per il benessere di tutti, non sono altro che la faccia feroce del capitalismo, sfociato nelle piattaforme digitali, dove sparisce il rischio di impresa e perfino l’imprenditore si dematerializza. Il Lavoro diventa “on demand” (a richiesta) e occorre essere disponibili in qualunque momento si è chiamati, spesso anche senza diritto di disconnessione. Un esempio si può vedere nel film di Ken Loach “Sorry, we missed you”, che è un vero e proprio spaccato della realtà in cui ci troviamo oggi. Un fattorino sottoposto a uno sfruttamento disumano dove costi mezzi di trasporto e rischi sono completamente a suo carico, privo di una sia pur minima tutela da parte del committente.
Le prime piattaforme sono nate nella Sylicon Valley alla fine del secolo scorso. Google, Apple, Tesla, una quarantina di imprese con sede in California, poi, con Facebook e i vari social network, grazie ad un algoritmo immagazzinano una quantità impressionante di dati, utilizzati per indurre al consumo di prodotti e servizi massificati. In seguito sono nate Uber, Airbnb, fra le prime, poi le app del food delivery (Deliveroo, Foodora, Glovo, Just-eat, etc.), oltre a quelli di progettisti, idraulici, quindi anche artigiani, che sono un vero e proprio mercato dentro cui si svolgono le più svariate attività di consegna di beni e servizi, tutti controllati da una app, senza conoscere l’imprenditore di riferimento.
I rider – i quali lavorano con contratti di tipo autonomo – accedono al loro (potenziale) lavoro “loggandosi” sul proprio cellulare a una applicazione smartphone e, una volta connessi, le consegne vengono loro assegnate in modo automatico da un algoritmo con la conseguente sottrazione del proprio tempo, anche quando non lavorano. E pertanto la decantata possibilità di poter scegliere liberamente i propri tempi di lavoro diventa più un desiderio che una realtà. Persino una semplice richiesta di cambio turno sembra essere particolarmente complicata nei lavori mediati da piattaforme. Con l’introduzione della paga a cottimo (invece che oraria) è dunque possibile che il lavoratore trascorra le ore del proprio turno lavorativo senza ricevere alcun ordine di consegna, e di conseguenza senza ricevere alcun compenso.
La vita dei riders dipende da un algoritmo che misura le prestazioni, è necessario loggarsi per iniziare il turno, altrimenti non si attiva l’applicazione necessaria per svolgere le consegne, e da quel momento i rider sono costantemente geolocalizzati. Se si protesta per migliori condizioni di lavoro, il licenziamento si traduce in una mancata assegnazione dei turni, senza obbligo di alcuna comunicazione formale .
Non solo fattorini. Con la sharing economy, una “folla” di soggetti a migliaia di chilometri di distanza e senza conoscersi, partecipano a progetti innovativi per l’impresa. Alla fine “vince” il creatore di un’idea che reca maggior profitto, con diminuzione di costi, per l’impresa e il cliente. Il solo a ricevere un compenso fra tutti gli altri partecipanti che non avranno remunerato energie e tempo dedicato. La sua idea viene sfruttata dall’impresa e spesso da questa brevettata come proprietaria, La new economy, non “fidelizza” il lavoratore che resta sempre e comunque facilmente sostituibile dalla concorrenza al ribasso di altri gig-workers. Il modello dell’auto-imprenditorialità è dunque il presupposto fondamentale per la fabbricazione del soggetto neoliberale.
Negli ultimi decenni, i politici, succubi delle leggi del mercato, non si sono affatto accorti che il risultato delle tecnologie digitali ha messo fortemente in crisi il lavoro e i lavoratori, con milioni di ragazzi che inseguono una o più app per sopravvivere, senza alcuna prospettiva di per il futuro, sottoposti all’osservazione di tabelle di marcia imposte dalle app.
Il problema non è solo il basso trattamento economico, ma i rischi alla salute, lo stress psicoemotivo e fisico, che questi lavoratori devono assumere sulla propria pelle. Il nostro ordinamento li considera “lavoratori autonomi”, ma gli effetti dei rischi diventano un costo economico e sociale per gli stessi lavoratori e per la collettività, con uno Stato sempre più privato della sua sovranità in tema di allocazione di risorse, e quindi sempre più incapace di sostenere il disagio sociale.
La nostra Costituzione è “fondata su lavoro” (art.1), all’art. 4 “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
L’art. 3, c. 1 riconosce a tutti i cittadini pari dignità sociale e al c. 2, “è compito della Repubblica rimuovere quegli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. L’art. 35, La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori. Promuove e riconosce le organizzazioni internazionali che affermano e regolano i diritti… L’art 36, sulla “retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”. Art. 38, c. 2, “I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.
Mi pongo questa domanda: come fa un “rider”, spesso considerato al pari delle merci, a sentirsi partecipe della vita politica, economica e sociale del paese, o sentirsi garantita “un’esistenza libera e dignitosa per sé e per la propria famiglia” se di fatto non riesce a darsi una connotazione sociale, senza tutele e condizioni di lavoro dignitose?
Come si è potuti arrivare al punto in cui la legge non riesce più a tutelarti, le istituzioni non regolano più l’economia ma favoriscono le regole del mercato e tu dipendi da una app? Queste sono le domande che dovrebbe porsi la politica oggi. Invece, l’UE ha spianato la strada con i trattati europei alla delocalizzazione, con la libertà di stabilimento delle imprese di produzione di beni e servizi in territorio europeo, vario sia nel costo della manodopera, che nei diritti dei lavoratori, che nel regime fiscale.
In Italia, i governi di centrosinistra degli ultimi 30 anni hanno confezionato una serie di regole per precarizzare il lavoro fisso. Nel 1997, all’epoca del secondo governo Prodi è stato varato il pacchetto Treu, perfezionato dalla legge Biagi, frantumando in mille rivoli e precarizzando il lavoro fino all’inverosimile, poi la riforma Fornero, fino al Jobs act di Renzi che ha eliminato le tutele dal licenziamento abolendo l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori.
In questo contesto politico si sono inserite le piattaforme del capitale, la gig-economy, e il legislatore non ha pensato agli effetti che queste leggi avrebbero avuto sulla trasformazione dei rapporti di lavoro?
Il legislatore italiano avrebbe dovuto almeno trovare un modo per far rientrare questi nuovi lavori ai sensi dell’art. 2094 del cod. civ. È prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore. Tuttavia, molti dei lavori che si svolgono su piattaforma non sono riconducibili all’art. 2094 c.c., con la conseguente esclusione del lavoratore dal sistema delle tutele previste dal diritto del lavoro. I “lavoretti” non rientrano nelle categorie di cui, per anni, i sindacati si sono occupati quando ancora esisteva un forte potere contrattuale. Questa è una trasformazione ignorata per anni.
Alcuni Paesi hanno pensato di sviluppare un modello alternativo: in Belgio, Francia e Spagna sono nate cooperative sperimentali, che puntano a rovesciare la struttura della gig economy, affidando direttamente ai lavoratori la gestione delle app, per rendere la piattaforma un dispositivo comune, da cui transitare per effettuare e ricevere l’ordine, ma che di fatto non appartenga a nessuno. Molenbike, Coopcycle, Coursiers bordealis sono alcune di queste cooperative .
Il legislatore, invece, non è ancora riuscito a far rientrare questi lavori come subordinati né con il dlgs. n 81 del 2015 sul lavoro somministrato, che, per quanto riguarda gli obblighi in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro, all’art. 35, li ripartisce tra somministratore e utilizzatore, stabilendo che il primo è tenuto ad “informare” i lavoratori sui rischi per la salute connessi con le attività produttive e addestrarli all’uso delle attrezzature necessarie allo svolgimento delle attività lavorative; né con la proposta di legge del 2016, il cui obiettivo è favorire la crescita della sharing economy. La proposta prevede la trasparenza, la leale concorrenza e la tutela dei consumatori, ma non tutela chi presta la sua attività attraverso le piattaforme.
Il Decreto “dignità” con lo scopo di garantire forme di tutela per i lavoratori delle piattaforme digitali, inserisce la definizione di “prestatore di lavoro subordinato”, ma resta fermo ai miglioramenti retributivi, senza sviscerare la questione delle tutele in materia di sicurezza. Tanto è vero che sia il Tribunale di Torino, che quello di Milano si sono espressi con sentenze assolutamente non riconducibili al lavoro subordinato, ma al lavoro autonomo, perché l’art. 2094 c.c. impone l’accertamento dell’eterodirezione, e affinché il lavoratore sia considerato subordinato deve sussistere il vincolo di soggezione al potere direttivo, organizzativo e disciplinare.
Il Parlamento ha convertito in data 2 novembre 2019 il d.l. 109/2019 riguardante, fra l’altro, il nuovo statuto dei “lavoratori delle piattaforme digitali”, categoria nella quale rientrano i c.d. gig workers (coloro che svolgono “lavoretti”). La legge di conversione (l. 128/2019) ha apportato alcune modifiche al testo originario sul lavoro tramite piattaforme “anche digitali”: con l’estensione alle tutele del lavoro subordinato anche ai lavoratori che operano tramite “piattaforme digitali”, nello stabilire un minimo di garanzie: il divieto di indici di gradimento del servizio da parte del cliente, un’indennità integrativa di almeno il 10% per il lavoro notturno, svolto nelle festività o in condizioni meteorologiche sfavorevoli. Ha vietato l’esclusione dalla piattaforma dalla mancata accettazione di singole prestazioni. In materia di sicurezza, di notevole rilievo sarebbe l’obbligo per il committente di assicurare il rider contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, però, spesso non si riesce a stabilire chi sia il committente. Più dubbia è invece l’applicazione delle tutele in caso di licenziamento illegittimo. Ovviamente il gig worker dovrà far ricorso al giudice qualora i suddetti diritti non siano spontaneamente riconosciuti dal datore di lavoro.
Dovrebbero usufruire delle tutele i lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di biciclette, moto, motorini o simili, attraverso piattaforme anche digitali. Le nuove tutele sono quindi “selettive” giacché riferibili ai soli soggetti che effettuano “consegna di beni per conto altrui”, lasciando fuori altre forme di lavoro tramite piattaforme digitali (si pensi al caso Uber).
Mentre la definizione di piattaforma digitale ai fini del decreto considera tali “i programmi e le procedure informatiche delle imprese che, indipendentemente dal luogo di stabilimento, organizzano le attività di consegna di beni, fissandone il prezzo e determinando le modalità di esecuzione della prestazione“.
In quanto alla forma, i contratti dei lavoratori che operano per le piattaforme di consegna devono avere forma scritta e gli operatori devono ricevere ogni informazione utile per la tutela dei propri interessi. In caso di violazione dell’obbligo informativo si applica al datore una sanzione amministrativa ed il lavoratore ha diritto ad una indennità risarcitoria non superiore ai compensi percepiti nell’ultimo anno. La mancanza di informazione sui contenuti del contratto può esser valutata dal giudice come elemento di prova in ordine alle condizioni effettivamente applicate al rapporto.
In materia di sicurezza, ci sarebbe l’obbligo per il committente di assicurare il rider contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali (art. 47 septies). Il decreto precisa che il committente che utilizza la piattaforma è tenuto a tutti gli adempimenti del datore di lavoro previsti in materia di assicurazione contro gli infortuni e le malattie. Che il committente sarà tenuto, a proprie spese, ad applicare ai riders il T.U. sulla sicurezza sul lavoro (d.lgs. 81/2008), estendendo di fatto il campo di applicazione del T.U. anche ai lavoratori autonomi.
Nel caso dei riders spesso non si riesce a risalire alla figura del datore di lavoro. In più, la contrattazione è stata fatta con un sindacato che di fatto ha siglato “catastroficamente” degli accordi per lavoro a cottimo, in contrapposizione a ciò che questi lavoratori hanno richiesto. E’ arrivato il tempo di mettere un freno alla giungla del mercato e la politica dovrà farsene carico, senza scaricare i problemi sulla collettività, ormai diventata una “folla di individui”.