Dagli anni ’80 è cominciata una lenta ed inarrestabile erosione dei diritti dei lavoratori, economici e normativi, con norme sempre peggiorative, fino ai primi anni dell’ultimo decennio, quando prima con la legge Fornero e poi con il “jobs act” di Renzi si è abolito il divieto di licenziamenti ingiustificati di cui all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
L’espulsione continua di lavoratori dal ciclo produttivo anche a causa dell’enorme progresso tecnologico e la crisi economica endemica rendono scarsamente realistica la tutela: le condizioni economiche, pur al ribasso, sono le uniche realistiche e la libertà di licenziamento è inevitabile visto che le condizioni d’impresa non presentano alternativa.
La rimessione ad una logica di mero mercato e la necessità di sostegno alle imprese si rivelano, “prima facie” almeno, inevitabili ed anche il frutto di un progresso economico, per cui l’impresa è più efficiente e può produrre maggior valore per l’economia ed addirittura per l’intera società, da cui deriverà alla lunga anche un progresso per il lavoro. Il progresso economico si traduce in un miglioramento forte ed in una razionalizzazione straordinaria della struttura economica, con il capitalismo che ha dimostrato di avere straordinarie risorse.
E’ peraltro solo apparenza.
La libertà di licenziamento pone il lavoratore in posizione di debolezza contrattuale con il datore e la sua posizione, in termini di diritti e di compenso, viene trascinata al ribasso in un degrado senza fine.
Il lavoro, senza tutele, è finito in un abisso distruttivo, con le morti (sul lavoro) che aumentano in via esponenziale, anche perché i lavoratori non hanno la minima possibilità di protestare in presenza di rischi.
I lavoratori non possono nemmeno protestare con efficacia, in quanto non solo non sono nemmeno assistiti ma addirittura sono vessati e perseguitati, come dimostrato dalle recenti aggressioni in massa a lavoratori in lotta, addirittura con un lavoratore morto.
La mancanza di tutela del lavoro è indice di barbarie, con i lavoratori senza dignità alcuna, in via di condizioni economiche e di posizione complessiva, anche in termini umani, e senza sicurezza, né come condizioni di lavoro né come salvaguardia dall’imprenditore e da suoi collaboratori esasperati a causa delle proteste lavorative. Non sono i lavoratori in lotta a ricevere giustificazione per le loro condizioni, ma gli imprenditori disturbati (“poverini”) dalle lotte.
E’ un ribaltamento completo dei rapporti di forza.
Non è venuta meno la lotta di classe: semplicemente, la più forte ha debellato la più debole.
Ebbene, un primo dato è che tale vittoria si è realizzata in un contesto di barbarie, a smentita del progresso generalizzato che si sarebbe realizzato con la liberazione del capitale da “lacci e lacciuoli”.
In termini economici, in seconda istanza non vi è da scandalizzarsi per l’esito unilaterale ed incondizionato a danno della classe più debole.
E’ un risultato totalmente conforme alla teoria marxiana, secondo cui una classe annienta l’altra: Marx pensava che la classe lavoratrice, emergente, avrebbe debellato il capitale, classe dominante, mentre è avvenuto l’esatto contrario.
Ma ciò perché i rapporti capitalistici di produzione si sono dimostrati vitali e migliorabili con il cambiamento radicale dei rapporti di forza a favore del capitale, sempre più vitale.
Il lavoro è debellato in quanto il capitale è in grado di aggregare settori sempre più vasti di lavoratori autonomi, beneficiati dal capitale.
Il lavoro autonomo si presenta pieno di prospettive in quanto associato al capitale.
Non è il lavoro autonomo che necessita delle tutele del lavoro subordinato (secondo la ricostruzione propria del “lavoro para-subordinato”), ma all’esatto contrario è il lavoro subordinato che deve essere privato di tutele rigide per essere parametrato sul modello dello stesso lavoro autonomo.
Che molte categorie di lavoro autonomo siano tali solo in apparenza e soggette a vessazioni immane appartiene alla dura legge dell’economia, ma non si rivela suscettibile di mettere in dubbio il modello, caratterizzato da vitalità e dinamismo, in grado di aggregare sempre più soggetti e categorie.
Il vero punto è che non vi è alcun miglioramento e razionalizzazione di struttura, visto che il dominio dell’impresa sul mercato si realizza non con un suo ruolo autonomo ed effettivo collegato ad un’organizzazione robusta e complessa, ma grazie all’iniziativa individuale dell’imprenditore pronto a cogliere tutte le possibilità lucrative sul marcato anche a detrimento dell’organizzazione e con un’elasticità forsennata nei rapporti con i collaboratori. L’imprenditore non è più un soggetto produttivo, ma è un vero e proprio speculatore.
La vitalità dell’impresa si traduce non in un valore aggiunto per l’economia, ma in un’appropriazione di ricchezza anche a detrimento di altri e con distruzione del valore di questi.
Il risultato finale netto non è necessariamente positivo, come nella crisi finanziaria del 2008 e come nella crisi immane di moltissime imprese piccole e medie, che a loro volta hanno bloccato i crediti, mettendo in difficoltà tutta l’attività creditizia e spingendo la Finanza nelle braccia della speculazione. Ma, anche quando positivo, esso ha un costo distruttivo che alla fine non si ricostituisce più
La forza dell’impresa è svincolata totalmente dalla prosperità dell’economia.
L’efficienza dell’impresa non è efficienza dell’economia.
Senza la tutela del lavoro, intesa come salvaguardia economica e di diritti e come divieto di licenziamento ingiustificato, con correlato cambiamento di qualificazione da lavoro autonomo in lavoro subordinato in caso di autonomia fittizia, il che si verifica ogniqualvolta il lavoratore veda la propria attività rimessa al mero unilateralismo dell’imprenditore, il ruolo produttivo dell’impresa, in grado di fornire valore aggiunto all’economia, è per antonomasia impossibile.
La tutela del lavoro deve essere sì assoluta ma in linea con l’esigenza dell’economia e con la sua elasticità.
Solo che l’elasticità deve essere non rimessa all’unilateralismo imprenditoriale, ma affidata alla programmazione economica pubblica, che sottoponga a controllo gli esuberi e distribuisca il loro reinserimento.
I Governi Conte, per la prima volta da trenta/quaranta anni, hanno registrato un’inversione di tendenza ponendo limiti ai contratti a termine, sostenendo i disoccupati con il reddito di cittadinanza ed infine bloccando i licenziamenti nella pandemia: misure tutte meritorie ed indispensabili, ma prive di sistematicità, quale può venire solo dall’impostazione che qui ci si permette di sostenere.
Il lavoro, quale unica fonte di valore assoluto, non è autosufficiente come invece il capitale, ma richiede l’aggregazione effettiva e consapevole dell’intera società.
Ciò proprio perché esso e solo esso non tollera -né può tollerare- sfruttamento e distruzione.
Proprio in tale ottica, il lavoro non può esercitare l’egemonia in autonomia e non può liberando sé stesso liberare l’intera umanità.
Esso è destinato alla sconfitta se non si inerisce nell’emancipazione e nel riscatto dell’intera società civile.
Il riscatto e l’emancipazione in questione possono derivare solo dalla programmazione economica, con cui la società determina il tasso di sviluppo (come evidenziato da Claudio Napoleoni negli anni ’60-’70) e sol così dirige ed indirizza l’economia, coordinando i vari fattori -art. 41, 3° comma, Cost.-, a partire dalla constatazione dell’ineluttabilità del cambiamento e della correzione del capitale, in quanto la massimizzazione dell’accumulazione ha portato ad un livello distruttivo di beni insostituibili, quale il clima e l’ambiente, e come se non bastasse ora la natura e la salute, oltre il quale non si può più andare.
La programmazione economica pubblica è indefettibile ed in essa il ruolo centrale spetta al lavoro, intorno a cui costituire la società civile e la nuova economia.
Il “Recovery Fund” è destinato al fallimento, in quanto perpetra un modello agonizzante se non subordina gli aiuti pubblici all’economia all’illegittimità dei licenziamenti e così al ripristino della tutela del lavoro.
E’ necessaria al riguardo una grande mobilitazione con uno sciopero generale (anzi “totale” alla Rosa Luxemburg ed alla Roger Garaudy): sol dopo tale scontro totale, legalitario sia ben chiaro ma con una mobilitazione tale da disincentivare da reazioni violente ed illegali del sistema, si potrà, una volta ottenuto il successo, concludere con la celebre chiusura dell’orazione funebre di marco Antonio nel “Giulio Cesare” di Shakespeare” “E adesso, malanno va’, scatenati, trova il corso tuo”.
La conclusione è monca se non si osserva costernati che la giurisprudenza, anche costituzionale, ha assistito inerme al disarmo graduale ma pressoché totale della tutela del lavoro compiuta in trenta/quaranta anni.
Proprio l’abolizione del divieto di licenziamenti ingiustificati è stata giudicata di per sé compatibile con la tutela imperativa del diritto lavoro in tutte le sue forme, e tale da renderlo indefettibilmente effettivo (art. 4), in quanto la scelta della natura della tutela, reale (con nullità del licenziamento) o meramente obbligatoria (con indennità) viene ritenuta appartenente alla discrezionalità del legislatore: l’intervento correttivo, sia pur di rilievo, è solo sull’incongruità, qualitativa e quantitativa, della indennità.
Si trascura così che l’ammissibilità del licenziamento disarma il lavoratore di fronte all’imprenditore e lo rende inerme ed inoffensivo.
Dall’illegittimità costituzionale dell’abolizione del divieto del licenziamento ingiustificato si può poi partire, pressoché in automatico, rendendo inevitabile una interpretazione della normativa conforme all’imperatività della tutela, in tutti gli istituti.
A chiudere, la trasformazione giudiziale della natura del rapporto di lavoro da autonomo a subordinato ogniqualvolta il lavoratore dipenda in modo unilaterale dell’imprenditore. Altrimenti, la tutela del lavoro subordinato, come detto imperativa e tale da rendere il diritto indefettibilmente effettivo, diventerebbe da obbligatoria facoltativa, facendo svanire nel nulla la natura imperativa.
*Lo scrivente comunica che è stato nominato Consigliere di Amministrazione del Monte dei Paschi di Siena, che è una banca quotata in borsa e ed è partecipata in via di maggioranza dal Ministero dell’Economia e Finanze.
Pertanto, lo scrivente ritiene, per correttezza e trasparenza, di non destinare più al pubblico sia articoli sia altri scritti a titolo di commento.
Gli stessi possono essere letti da chi è interessato esclusivamente come componenti di futuri libri di natura dottrinale, in materia giuridica, filosofica, politica, economica e storica: non sono -e non saranno- in alcun modo riferiti all'attualità.