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Convegno La "RENZONOMICS" fa bene all'Italia? - PRESENTAZIONE Featured

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L'intervento dello Stato per uscire dalla crisi che il Fiscal compact e la riforma del mercato del lavoro non risolveranno


Presentazione del Circolo degli Scipioni


Il Circolo degli Scipioni è nato per iniziativa di un gruppo di intellettuali milanesi, soprattutto del rimpianto Nando Ioppolo, perché essi, già alla metà degli anni ’90 del secolo scorso, trovavano molto parziali le analisi economiche propinate dal cosiddetto pensiero unico e perché paventavano, già allora, una forte crisi economica in occidente. Anche la stessa assunzione nominale “Circolo degli Scipioni” è sintomatica in quanto è dovuta ad un precedente storico. Intorno a Scipione l’Africano, il vincitore di Zama, si era radunato un gruppo di intellettuali che ha prodotto una teoria: Roma sarebbe caduta a causa della crisi economica, perché la forte espansione del latifondo e delle grandi imprese agricole avrebbe messo in crisi le piccole aziende a conduzioni familiare. In questo modo, si sarebbe rotto l’equilibrio sociale e si sarebbe creata una moltitudine di soggetti economicamente spiantati e facili prede delle teorie e delle pratiche populiste. Il fenomeno era già accaduto in Grecia. Inutile dire che la previsione del Circolo si avverò, anche perché non vennero attuate le proposte da loro avanzate e cioè: massiccio intervento dello Stato a sostegno delle piccole aziende ed utilizzo oculato delle terre conquistate. Come si vede, si tratta di problemi e proposte molto simili a quelle dibattuti oggi. Il Circolo degli Scipioni di Milano ha voluto organizzare questo incontro coinvolgendo interlocutori politici, sindacali ed intellettuali con l’obiettivo di farli interagire nella ricerca di soluzioni che possano cambiare il paradigma economico oggi in uso. Per di più, si deve tenere conto che la crisi economica può essere, come allora a Roma, propedeutica alla crisi della democrazia e delle sue forma di rappresentanza. Alcune delle iniziative di questo governo (Jobs act, riforma del Senato, ecc.) possono essere lette anche come riduzione della democrazia. Nel nostro Paese abbiamo avuto un partito azienda che nei suoi lunghi anni di governo non ha affrontato la crisi che si andava profilando ed, oggi, il più grosso partito di centro sinistra si è del tutto adeguato al paradigma economico del Pensiero Unico, magnificando le leggi del libero mercato, realizzando dissennate privatizzazioni. La progressiva privatizzazione della sfera pubblica, la mancanza di investimento delle imprese italiane in innovazione e il conseguente trasferimento dei profitti nella speculazione finanziaria, sono scelte che hanno sconvolto il nostro sistema produttivo. Col risultato che le grosse aziende hanno delocalizzato e il 25% delle PMI ha chiuso, portando la disoccupazione ai livelli del secondo dopoguerra. Tutti sembrano insensibili a valutare che la bontà di una politica economica si misura sulla quantità di benessere che riesce a generare per i cittadini. Non è così per le scelte di austerità che, negli ultimi anni, hanno peggiorato e peggiorano le condizioni di vita dei lavoratori e di milioni di cittadini, inducendo anche una continua precarietà materiale e soggettiva. Il governo attuale e quelli precedenti non hanno saputo o voluto avviare una vera politica economica e industriale, ma hanno praticato il “laissez faire” e consentito che le maggiori industrie italiane si convertissero alla finanziarizzazione o delocalizzassero in Paesi a basso costo di manodopera o, ancora, che si vendessero alle corporazioni internazionali. La crisi si è manifestata con l’acquisto indiscriminato da parte delle banche, e poi anche delle Istituzioni, di prodotti finanziari tossici e poco chiari. Ma le banche hanno continuato a speculare e spalmano le perdite sui piccoli risparmiatori, che vedono ridursi il loro potere d’acquisto. Il fenomeno ha investito pienamente anche i ceti medi rappresentati da piccoli professionisti e PMI annientate dall’imperversare di una globalizzazione senza regole. Non ci vuole certo un professore di economia per capire che l’innalzamento dell’età pensionabile incrementa la disoccupazione; o che l’aumento dell’aliquota IVA, la riduzione del potere d’acquisto dei salari, la riduzione dei posti di lavoro, il taglio della spesa pubblica, la delocalizzazione sono tutte azioni che fanno calare i consumi e diminuiscono le magre casse dello Stato, come dimostra il continuo ampliamento del debito che, a parole, si vuole combattere. Uno Stato che destina gran parte delle sue risorse, secondo la legge di stabilità, alla riduzione impossibile del debito pubblico e non per l’occupazione, come potrebbe essere un investimento pubblico su tecnologie verdi, energia, infrastrutture, trasporti, salute, educazione, servizi sociali; uno Stato che, dall’altra parte, non vuole intervenire sulle pratiche che generano utili solo per i privati su infrastrutture pubbliche, come nel caso delle concessioni autostradali dove sono state triplicate in alcune tratte le tariffe di transito; oppure della vendita di quote consistenti di aziende municipalizzate ai privati; o ancora della concessione quasi gratuita della gestione del suolo demaniale; o la privatizzazione incondizionata dei servizi pubblici essenziali (sanità, trasporti, istruzione, etc.) e la vendita di beni dello Stato che potrebbero essere destinati a scopi sociali e produttivi, anziché spesso svenduti ad acquirenti avidi, a volte anche stranieri; uno Stato che risponde alla crisi con queste azioni, non fa che peggiorarne le condizioni, annullando la possibilità di una ripresa economica a vantaggio di una recessione irreversibile. Né si può definire risolutiva della disoccupazione, che grava su uno Stato in via di deindustrializzazione, una riforma strutturale del lavoro accompagnata dalla cancellazione diritti dei lavoratori, oppure la esecuzione letterale delle direttive dell’Unione Europea recepite, quando quest’ultima emana direttive spesso incomprensibili e predica solo il rispetto di regole finanziarie e non di quelle sociali. Per questo crediamo che occorra invertire la rotta, abbandonando in corso d’opera i decreti in cantiere della “Renzinomics” che non porta occupazione in Italia, né benessere, ma cancella i diritti sul lavoro. Insistere ancora porterà questo Paese ad una totale paralisi economica dalla quale rimontare diventerà pressoché impossibile. In questa sede ritengo opportuno ricordare che il TTIP, l’accordo transatlantico di libero scambio a favore del quale l’Europa sta armonizzando la propria legislazione a quella degli USA, si inserisce a buon diritto ad un peggioramento delle regole verso la garanzia dei diritti, di tutela del lavoro, della salute e dell’ambiente. Renzi lo accetta senza “se” e senza “ma”, lo definisce “un salto di qualità e uno scatto in avanti” e spera che le trattative si concludano “entro la fine del prossimo anno”, perché, per lui, il TTIP “non è un semplice accordo commerciale come altri, ma è una scelta strategica e culturale per l’UE”. Mentre non parla delle ripercussioni negative. Ad esempio, i prodotti agricoli ed alimentari americani o canadesi potrebbero addirittura costare fino al 25% in meno di quelli francesi o tedeschi o italiani, mettendo seriamente a rischio l’esistenza della filiera dei piccoli e medi produttori europei che, in assenza di una politica di dazi doganali all’importazione e della impossibile (oggi) svalutazione della moneta interna, avrebbero sempre meno strumenti per difendersi dalla concorrenza. Noi auspichiamo che i cittadini europei, che, per fortuna, si stanno mobilitando in ogni Paese, vengano a conoscenza che si accresce la capacità di condizionamento delle multinazionali sugli Stati e si percorre una strada assai rischiosa, come dimostra il risultato del NAFTA, un accordo di libero scambio tra gli USA, il Canada e il Messico, che invece di produrre un incremento di 6 milioni di posti di lavoro, come si propagandava nel periodo della trattativa, ha fatto sì che il Canada perdesse oltre 1 milione di lavoratori e gli USA 2,7 milioni. Inoltre, i sussidi all’agricoltura a favore degli agricoltori negli USA hanno causato una pressione verso il basso dei prezzi agricoli messicani, obbligando molti agricoltori a lasciare la loro attività. La mia impressione è che l’appoggio incondizionato di Renzi all’accordo di libero scambio transatlantico sia dettato dall’incapacità di risolvere diversamente il problema della disoccupazione e dal non voler abbandonare le ricette neoliberiste. Forse questo spiega l’urgenza della riforma del mercato del lavoro proposto da una maggioranza innaturale che va dalla destra moderata al PD. Crediamo che lo Stato si debba dotare di un Piano del lavoro per la miriade di obiettivi, che attendono solo strutture che se ne prendano cura, su tecnologie verdi, energia, infrastrutture, trasporti, salute, educazione e servizi sociali e che debba operare con massicci investimenti pubblici in questi settori per offrire occupazione e reddito a tutti coloro che siano disponibili e capaci di una prestazione di lavoro, per creare valore sociale e produrre quei beni materiali e immateriali che l’impresa privata non può e non vuole produrre. E’ compito dello Stato realizzare un diritto all’occupazione funzionale all’espansione del benessere collettivo, che abbia come obiettivo la protezione della dignità della persona e la sua sicurezza economica e contrastare, invece, il modello delle big Corporation che crea flessibilità dei salari verso il basso, maggiore disuguaglianza, crescente povertà e disperazione sociale con indubbi caratteri regressivi in termini di stabilità e progresso civile. Perché si può liberalizzare, privatizzare, sottoporre a riforma strutturale qualsiasi cosa, ma non ci sarà occupazione e crescita fintanto che non ci saranno investimenti dinamici e trasformazioni istituzionali di questo tipo. È questa la parte strategica del deficit che viene completamente ignorata. È chiaro che si devono ridurre gli sprechi ed eliminare la burocrazia non necessaria. Ma se queste riforme non saranno accompagnate da massicci investimenti, di dimensioni simili a quelle del Piano Marshall (ossia il 2,5 per cento del PIL dell'Unione europea), anche con nuove tipologie di collaborazione tra pubblico e privato, che consentano un incremento della produttività e garantiscano posti di lavoro e opportunità per le nuove generazioni, rimarremo impantanati nella stagnazione secolare. E non è un destino ineluttabile: è il risultato di scelte insensate, dettate da una totale mancanza di visione
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  • Last modified on Sunday, 01 February 2015 17:14