Annullate le tutele dei lavoratori con lo “job act”, non si parla di livello degli stipendi, ed invece il punto è decisivo in termini non solo di equità sociale ma anche di politica economica, visto che sono i redditi dei ceti medio-bassi che determinano la domanda interna e quindi lo sviluppo economico. Venuta meno la contrattazione collettiva nazionale, nella sinistra radicale si intende far riferimento alla legge ed alla previsione per legge di uno stipendio minimo generalizzato. Tale proposta si interseca con quella di un reddito minimo garantito, anche quindi ai non occupati e così a carico dello Stato, a differenza dello stipendio minimo garantito, questi a carico delle imprese. Il reddito minimo garantito si rivela dalla non facile praticabilità, visto lo stato di dissesto delle finanze pubbliche, e se ha elementi di condizionalità minime non è nemmeno condivisibile politicamente, in quanto prescinde dall’inevitabilità dello stato di disoccupazione, e così rientra in una linea generale antagonistica di liberazione non del lavoro ma dal lavoro. Lo stipendio minimo garantito è condivisibile ma di dubbia praticabilità in quanto troppo rigido. E’ preferibile la contrattazione collettiva nazionale, che entrata in crisi profonda e difficilmente sanabile. Contro lo stipendio minimo nazionale, sia esso per legge o per contrattazione nazionale, vi è l’obiezione, seria, che esso non tiene conto delle differenti realtà, in particolare del differente tenore di vita nelle varie zone d’Italia. Mille euro a Milano non hanno lo stesso valore di mille euro a Potenza, ma valgono molto meno. Di qui l’idea delle gabbie salariali, con differenza di livello tra le situazioni delle differenti realtà locali, idea seria economicamente ma che si espone all’obiezione che così si perpetra e si rende irreversibile la differenza tra le varie zone, impedendo l’emancipazione di quelle più deboli. Una soluzione del complesso problema è difficile, anzi, se la si vuole nell’immediato, è pressoché impossibile, visto che il problema si presenta irresolubile alla luce della contraddizione inestricabile tra realtà pratica, che conduce inesorabilmente nel senso dell’inevitabilità delle gabbie salariali, da un lato, e dall’altro ragioni di politica economica che al contrario spingono a non accettare una realtà che ingabbia le zone meno prospere del Paese in una situazione di eterna minorità. La soluzione deve essere graduale e per strati. In primo luogo, la determinazione del reddito minimo deve essere lasciata alla contrattazione sindacale, più elastica della sede legislativa, e quindi tale da consentire modifiche ed adattamenti. In secondo luogo, la sede di contrattazione collettiva deve essere nazionale per tenere unito il Paese e soprattutto assicurare una soluzione globale. In terzo luogo, gabbie salariali fissate a libello nazionale, vale a dire stabilendo a livello nazionale il differente livello regionale o locale, non possono essere incondizionate, ma devono ricevere correttivi, quale per esempio interventi sanzionatori nei confronti di (imprese che adottano) aumenti di prezzi ingiustificati nelle zone più floride, e soprattutto devono essere affiancate da una programmazione pubblica che elimini le storture e le disparità enormi tra aree. Il libero mercato produce, inevitabilmente, storture, con la conseguenza che una politica del lavoro per essere effettiva ed efficace deve essere affiancata da una politica economica globale, “rectius” deve rientrare organicamente in tale politica economica e quindi esservi inserita. E si deve trattare di una politica economica fortemente correttiva del mercato, e tale da coordinarlo, indirizzarlo e dirigerlo in modo stringente. L’asse deve essere spostato dal capitale al lavoro, ma ciò non può essere realizzato solo intervenendo sui rapporti di lavoro, ed infatti occorre un cambio radicale che investa tutta l’economia. Le gabbie salariali sono frutto di barbarie, ma non possono essere combattute solo ricorrendo ai sacri principi: è necessaria una politica economica globale, di cui i rapporti di lavoro siano una componente, fondamentale, ma non esclusiva. Il rischio che così la tutela dei lavoratori venga sacrificato a esigenze in via pretesa generali è reale ed effettivo, ma chi ritiene che il lavoro sia l’elemento guida dell’economia e il banco di prova della sinistra deve accettare la sfida e partire dal lavoro per costruire attorno ad esso una politica economica riformista che lo valorizzi e cambi l’economia in sua funzione ed al suo servizio. Altro è (non noia, per parafrasare Califano, m sicuramente) illusione o in alternativa atteggiamento remissivo e rinunciatario. Essere dalla parte del lavoro vuol dire partire da esso ma non fermarsi mai ed aggredire tutta l’economia, ma tutta, proprio tutta, senza eccezioni di sorta.