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Convegno La "RENZONOMICS" fa bene all'Italia? - INTRODUZIONE Featured

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Introduzione di Elio Siracusa


Parafrasando vecchi inizi di racconto, verrebbe da dire che è una notte buia e tempestosa. L’ambiente ideale perché si possano commettere misfatti, che, infatti, si stanno compiendo. Li vediamo nel nostro paese anche senza fare ricorso a sofisticate indagini sociali ed economiche, ma temiamo che siano più vasti e che si manifestino anche in altri paesi europei ed in altri continenti. Se ci fosse tempo per farlo bisognerebbe ragionare anche in questo convegno di come l’Europa stia fallendo concretamente il processo di unificazione, così come evidenziano il dispiegarsi non solo di gelosie nazionali, ma anche di spinte identitarie (referendum in Scozia, prossimamente in Catalogna e così via) tutte tese alla ricerca di qualche certezza e tutte, purtroppo miopi, rispetto alla necessità di contrastare questo specifico processo di globalizzazione in atto. Eppure queste tendenze identitarie o nazionalistiche sono indubbiamente favorite dalle scelte compiute dalla comunità europea o meglio ancora dall’avere essa stessa smarrito l’idea di sé, vale a dire di una civiltà del welfare e di un rapporto tra istituzioni e cittadini tendente all’inclusione. E come se, per dirla con Baumann, l’Europa che ha scoperto tutti i continenti ed ha cercato, con molti errori e crudeltà a dire il vero, di esportare la sua organizzazione e le sue forme istituzionali avesse ormai esaurito la sua spinta e fosse a sua volta invasa da valori diversi e lontanissimi. Senza perifrasi si potrebbe dire che il capitalismo europeo, che aveva conosciuto tutte le fasi storiche, dallo sfruttamento intensivo della manodopera al welfare, si è assimilato a quello degli altri continenti, dove la lotta di classe, seppure molto intensa, non aveva saputo o potuto produrre sistemi intermedi di rappresentanza forti e riconosciuti e neppure legislazioni di tutela. Qui, però, non ci si vuole inoltrare in considerazioni sociologiche e filosofiche, anche se ribadiamo ce ne sarebbe un grande bisogno per ritrovare fili di pensiero e di civiltà, ma affrontare la questione dell’economica e delle scelte compiute dagli Istituti pubblici (BCE, FMI, Banca Mondiale, ecc.) e dai capitali privati lasciati assolutamente liberi di muoversi seguendo solo il loro interesse. E, nonostante il fallimento clamoroso di questo sistema, emerso con la crisi del 2008, rilevare come l’insieme degli interessi consolidati di una piccola parte della popolazione e l’assenza di una proposta alternativa che, per comodità, definiamo di sinistra in opposizione al liberismo attuale, non abbia determinato il superamento di quel sistema o almeno istituti forti di controllo. Non sono mancate analisi puntigliose ed anche proposte interessanti in termini economici, ma il soggetto sociale, cioè la politica, che potesse o volesse interpretarle e dargli corpo. Perché la crisi di rappresentanza che ha investito tutti (i partiti, i sindacati, le istituzioni pubbliche) ha prodotto un individualismo diffuso per cui milioni di persone, che vivono la stessa drammatica situazione, non sono in grado di organizzarsi per cercare di cambiarla, ma ripiegano in un inquietante silenzio sociale o in atti disperati o ancora in fughe dal contesto dato. Con il tramonto della civiltà del lavoro e delle aggregazioni materiali che essa produceva, sembra tramontare l’idea stessa di tenuta sociale degli stati. Forse si sta avverando la tesi della signora Tachter: non esiste la società ma lo stato (o meglio l’organizzazione dei poteri) ed i singoli individui. Da qui, un qui geografico, l’Europa, e un qui temporale, ora, bisogna cercare di ripartire per invertire la rotta. Il qui geografico va, però, ancora meglio definito perché all’interno dell’Europa c’è una zona, quella mediterranea, in particolare sofferenza. Tutti conosciamo la drammatica situazione della Grecia, le crisi di Portogallo e Spagna, l’imposizione di ricette economiche indifferenti ai danni sociali, la diffusione di formule vuote e retoriche che si ripetono come un mantra tipo “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre risorse”, cioè abbiamo avuto il welfare. E dentro la crisi dell’Europa mediterranea c’è quella italiana, che rischia di assumere proporzioni clamorose per il contemporaneo manifestarsi di recessione e deflazione. La contemporanea presenza dei due maggiori indicatori di crisi del capitalismo è strutturalmente molto preoccupante in sé, ma rileva drammaticamente altri aspetti della crisi stessa. Rileva, ad esempio, il clamoroso vuoto di una classe politica che, anche all’interno di una situazione difficile ed anche senza proporre ricette risolutive, sapesse almeno indicare una prospettiva, un cammino da percorrere. Anche il governo Renzi sembra avviarsi su questa china, visto il pasticcio in termini di riforme istituzionali e soprattutto l’assenza di indicazioni in termini economici. In questo vuoto, in questa notte buia e tempestosa si favoriscono i misfatti, come quello relativo ai diritti dei lavoratori o come quello relativo ai diritti politici di tutti visto che avremo assetti istituzionali per la prima volta non votati dai cittadini. Rileva, ad esempio, la drammatica assenza di una classe imprenditoriale responsabile e fattiva, capace sia di rinnovare ed innovare sia di proporre nuovi prodotti o nuovi servizi. E come se la parola d’ordine, reale anche se non pronunciata ufficialmente, fosse stata quella di salvare i guadagni del passato, magari esportandoli all’estero; limitarsi alla denuncia della mancanza di politica industriale senza mai avanzare una proposta, se non quella di provvedimenti statali intesi anche e soprattutto come riduzione dei diritti dei lavoratori e riduzione delle imposte alle imprese; di non investire più in impresa, ma cercare di impadronirsi a poco prezzo degli apparati industriali e finanziari una volta pubblici (si pensi a Telecom, ad Alitalia, alle banche ed altro ancora e qualcuno dica i vantaggi per il paese in termini di riduzione del debito e in termini di sviluppo delle imprese stesse). Ci scusiamo per la genericità dell’esposizione perché andrebbe svolta in maniera più analitica e perché così si rischia di non rendere giustizia a quegli imprenditori importanti, pochi in verità, che invece hanno agito bene, e non renderla neanche a quelle PMI sane spesso sacrificate per l’assenza di politiche di filiera e per scelte opportunistiche di delocalizzazione. Rileva, ad esempio, la crisi del sindacato. Crisi di rappresentanza per un verso e frammentazione per l’altro. Per la frammentazione basta scorrere le posizioni di CISL ed UIL, per non dire altri, in merito al Job Act. Il sindacato qualche responsabilità la porta perché non ha saputo o voluto vedere sino in fondo gli effetti dei processi in atto. La porta perché non ha mai saputo o voluto costringere il governo ad affrontare il gigantesco problema della perdita di apparato produttivo del paese (oltre il 25%) e non ha chiamato i lavoratori attivi stabilizzati, i precari e coloro che sono in cerca di lavoro alla mobilitazione, illudendosi che sedersi intono ad un tavolo potesse ridurre i danni ed assegnare patenti di responsabilità. La porta, in sostanza, perché avrebbe potuto chiamare prima alla mobilitazione persino i comuni cittadini giacché il ruolo di un sindacato confederale travalica la rappresentanza diretta degli iscritti delle varie categorie. Il sindacato, di fronte ad un attacco fortissimo e condotto su più piani, non è stato in grado di lanciare una sfida per il cambiamento, finendo così per essere accusato, ingiustamente, di conservatorismo e soprattutto perdendo in rappresentanza Proprio a queste categorie sociali, a questi interessi e ruoli materiali intendiamo rivolgerci per ritrovare tutti assieme il bandolo di una matassa assai ingarbugliata. Per farlo, vista la complessità della situazione e l’interessato rumore di fondo messo in atto dai media oggi assai meno indipendenti, è necessario, però, partire, anzi ripartire da alcuni punti fermi; il primo dei quali è recuperare il concetto stesso di scienza economica. Bisogna recuperarlo, infatti, al suo ruolo sociale, al suo occuparsi della condizione non solo dei paesi ma anche di chi li abita, al suo apporto tecnico per la diffusione della ricchezza. Non giungiamo a dire una scienza economica sociale, ma una scienza economica che tenga conto del sociale e lo ponga come soggetto/oggetto del suo operare. Questa nostra iniziativa vuole essere un tassello, magari piccolo, per partecipare a questa riaggregazione di forze sociali ed alla elaborazione di un progetto alternativo. Vogliamo partire dalle forze e dagli interessi materiali in campo anche perché siamo convinti che sul campo è maturata la sconfitta dei lavoratori e della civiltà del lavoro da loro costruita, ma anche quella dei ceti imprenditoriali produttivi. Ci rivolgiamo soprattutto alla sinistra per la sua matrice culturale, per la sua tradizione, per il suo volere/dovere di rappresentante del mondo del lavoro affinché promuova materialmente e culturalmente un progetto economico alternativo e praticabile.

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  • Last modified on Sunday, 01 February 2015 17:18