Il pensiero pseudo-liberista oggi ancora dominante a livello di scienza, media e
politici di quasi ogni orientamento, il così detto Pensiero Unico in economia,
sostiene/crede che si può/deve promuovere la crescita economica con la
stessa ricetta che a suo avviso assicurerebbe il risanamento del bilancio
pubblico e perfino il controllo dell’inflazione. Una “ricetta” che, stranamente,
alla elite creditizio-finanziaria ed ai ceti possidenti piacerebbe che venisse
adottata “a prescindere”, come diceva Totò, ovvero indipendentemente dalla
esistenza contingente di un qualsivoglia pretesto. Stiamo parlando, infatti, di
una ricetta così composta:
1)posticipo della età della pensione e tagli consistenti del welfare;
2)introduzione della mobilità nel pubblico impiego parallelamente al
licenziamento dei pubblici dipendenti “in esubero” e alla contrazione
percentuale “alla greca” delle retribuzioni pubbliche;
3)inasprimenti generalizzati e proporzionali del prelievo fiscale, senza cautele
per il lavoro dipendente e autonomo e le imprese minime, e con reintroduzione
della ICI sulla prima casa, incluse quelle gravate da mutui ipotecari;
4)estensione dei licenziamenti facilitati anche alle imprese con più di 15
dipendenti, e del lavoro precario, indulgenza verso l’uso degli straordinari,
verso la moderazione salariale e verso un maggiore sfruttamento in genere del
lavoro dipendente;
5)liberalizzazione delle libere professioni e del commercio;
6)privatizzare tutto il privatizzabile, inclusi i “gioielli di famiglia”, e pure i
contratti dei pubblici impiegati;
Accanto a queste proposte, ne esisterebbero delle altre talmente anti-popolari
da essere inconfessabili:
7)ulteriore consistente contrazione percentuale delle retribuzioni private (circa
50%) con aumento generalizzato dell’orario di lavoro e restrizione delle
festività e delle ferie;
8)privatizzazione progressiva della sanità, della istruzione, della pubblica
sicurezza e della difesa;
9)eliminazione di ogni sorta di assistenza sociale, diretta e indiretta, inclusa
l’edilizia popolare e convenzionata;
10)divieto penale degli scioperi e dell’associazionismo sindacale.
Nessuna critica, invece, sarà mai possibile cogliere nella pubblicistica tecnica
e atecnica verso la misura degli interessi bancari pagati sui bot e sui servizi
bancari privati, verso la detassazione dei redditi da capitale (12,5%) e dei
patrimoni (zero %) e verso la sperequazione distributiva. E’ pur vero che
qualche timida critica viene almeno mossa verso la speculazione borsistica,
ma è anche vero che viene sempre obiettato, con una sicurezza che non
ammette repliche e non necessita di spiegazioni, che ogni riforma del mercato
finanziario provocherebbe certamente molti più guasti di quanti pretende di
risolverne (sic!). Nessuna critica nemmeno contro gli enormi oneri finanziari
privati che paghiamo ogni anno (circa 130 Mld) e contro gli interessi bancari
(80 Mld, circa) che paghiamo ogni anno sul nostro debito pubblico pregresso,
che ci costringono a bruciare così un corrispondente avanzo primario, pari
quasi al 20% della nostra spesa pubblica (420 Mld) ed al 5% del nostro PIL
netto (1.590 Mld, nel 2009). Ancora più criminale è il silenzio scientifico,
mediatico e politico sul punto, posto che si permette che questi interessi
vengano amplificati dalla speculazione sui Credit Default Swap sui bot (i
derivati assicurativi contro il loro default), e, nel contempo, si pretende che
siano pagati gravandoli recessivamente sui consumi popolari pubblic e privati
anziché sui giganteschi risparmi dei ceti possidenti (350 Mld circa, ogni anno).
E per contenere la disoccupazione (circa 5 milioni a fronte di circa 25 milioni di
occupati, tra chiaro e nero) e la recessione (il nostro PIL, correttamente
depurato dell’inflazione effettiva, è oggi meno della metà di quello degli anni
’80!), c’è poi solo una promessa implausibile: che adottando queste ricette
pseudo-liberiste, anche se nell’immediato si dovranno soffrire fastidiosi effetti
recessivi, la maggiore efficienza produttiva così acquisita non mancherà di
dare i suoi ricchi frutti, le cui colature andranno certamente anche a vantaggio
dei lavoratori, dei disoccupati e degli utenti dei servizi sociali.
In aggiunta, viene pompato un conflitto che si sostiene esisterebbe tra i giovani
disoccupati e gli anziani occupati, da risolvere licenziando i secondi e
assumendo al loro posto, anche part-time, giovani precari, e si ricorda come
dopo secoli di sfruttamento coloniale è in fondo giusto che il testimone passi
finalmente dai popoli vecchi e in declino del nord del mondo ai popoli giovani
del terzo mondo, ventilando demagogicamente, perfino, che la recessione
presenta il vantaggio collaterale di ridurre l’inquinamento!
Per vincere le ultime resistenze popolari, infine, viene agitato lo spauracchio
dell’inflazione, sostenendosi, da un lato, che ne sarebbero sempre responsabili
l’aumento della domanda interna e della massa monetaria, e perfino le
indicizzazioni automatiche quali la scala mobile. Da un altro lato, che
l’inflazione sarebbe il pericolo numero uno del capitalismo, perché farebbe
fuggire i capitali ed avvierebbe trend ribassisti in borsa per l’euro e per i titoli,
specialmente bancari. L’euro “debole”, poi, renderebbe sempre più cara la
nostra bolletta energetica e le importazioni necessarie penalizzando ulteriormente
la competitività del made in UE, mentre l’intera economia verrebbe
progressivamente quanto inesorabilmente spinta verso il crack sistemico.
Queste sono tutte chiare forme di cecità selettiva da coscienza di classe
“padrona”. Nella sostanza, invece, nessuna di queste affermazioni ha il
minimo fondamento scientifico.
Innanzitutto, va detto che queste ricette sono pesantemente recessive e
ridistribuiscono regressivamente la ricchezza dal 99% della popolazione verso
l’1% più ricco, il che, com’è intuibile, basta e avanza perché vengano
sostenute ideologicamente con tutti i mezzi scientifici, mediatici e politici di cui
quell’1% dispone.
In secondo luogo, va chiarito che investimenti produttivi e occupazione sono
funzione diretta della offerta che viene venduta sul mercato interno, al saldo
dell’export-import. Oggi, su un PIL netto di circa 1.590 Mld, più un PIL “nero”
stimato in circa 300 Mld (2009), i primi ammontano a circa 80 Mld appena,
mentre la seconda ammonta a circa 25 mln di unità. Restano ad oggi
inutilizzati a fini produttivi, pertanto, circa 3.000 Mld di ricchezza mobiliare
accumulata e circa 5 mln di lavoratori, che, ancor più della distorsione dei
consumi indotta dalla distribuzione sperequatissima della ricchezza, danno la
dimensione della gravissima inefficienza complessiva del nostro capitalismo
“finanziarizzato”. Nel contempo, se ne deduce che se non mutano
significativamente il progresso tecnico-scientifico e organizzativo-aziendale, e
le condizioni dello sfruttamento del lavoro (orario settimanale, straordinari,
ferie, ritmi, ecc.), servendo circa 25 mln di lavoratori per produrre 1.900 Mld di
PIL totale, serve un aumento di circa 75 Mld di PIL per assorbire un altro
milione di disoccupati, per un totale di 375 Mld di PIL aggiuntivo per assorbirne
5 mln. Inoltre, va compreso che per fare crescere di 75 Mld il PIL, occorre fare
aumentare di 75 Mld la vendita di beni e servizi sul mercato interno, il che
implica che aumenti di 75 Mld la domanda interna al saldo dell’export-import.
Ciò si può conseguire o trasformando 20 Mld di risparmi nazionali in 20 Mld di
consumi nazionali attraverso un corrispondente trasferimento di ricchezza
dalle fasce alte di reddito verso quelle medio-basse, o comunque reperendo
una domanda aggiuntiva di 20 Mld, in qualunque modo lo si voglia fare, vuoi
con il deficit-spending, vuoi con la finanza “allegra”. Stando alle arcifamose
scoperte di Keynes, infatti, basta in realtà un incremento di una qualsiasi
componente della domanda interna pari a circa ¼ del desiderato per generare
effetti moltiplicatori espansivi della domanda aggregata pari a circa 4 volte
l’incremento iniziale, e, di conserva, generare una promozione quadrupla di
investimenti produttivi, occupazione e PIL. Con 30 Mld di sussidi l’anno,
pertanto, mentre si proteggono 3 mln di disoccupati, si espande la
domanda interna e il PIL di oltre 120 Mld, assorbendo più di 1,5 mln di
disoccupati. C’è da stupirsi, allora, se gli ambienti possidenti sono da sempre
ferocemente e irreversibilmente antikeynesiani?
La prima conclusione che va tratta, dunque, è che ogni intervento recessivo
aggrava pesantemente quel rapporto debito pubblico/PIL che pur allevia
nell’immediato, facendo aumentare anche la disoccupazione (e la inefficienza
complessiva del sistema), mentre solo gli interventi espansivi pompano
investimenti produttivi, occupazione e PIL.
Sotto questo profilo, il P.U. è totalmente incapace di fornire il minimo
contributo scientifico. Come abbiamo appena visto, infatti, le sue ricette sono
tutte pesantemente recessive nell’immediato e rimandano ogni prospettiva di
crescita al miglioramento del saldo export-import che dovrebbe derivare dalla
maggiore competitività che verrebbe conseguita dalle nostre imprese, anche
se si tratterebbe di una competitività solo “stracciona”, in quanto conseguita sul
solo fronte del costo del lavoro e del risparmio fiscale conseguente il taglio del
welfare. Il P.U., stranamente non si accorge che è invincibile sul fronte dei
costi la concorrenza “sleale” delle multinazionali delocalizzate in aree del
terzo mondo dove producono sottocosto nel massimo dispregio della natura e
dell’uomo, con la pretesa di esportare poi nel nord del mondo il 95% della
produzione così ottenuta. Altrettanto stranamente, poi, non si accorge che un
euro “forte” penalizza l’export-import allo stesso identico modo in cui lo
penalizza una più alta inflazione interna a cambio invariato, per cui, in
costanza di più alta inflazione, basta svalutare periodicamente l’euro in misura
pari al differenziale di inflazione esistente rispetto alle altre aree valutarie. E
non se ne accorge perché non vuole freni alla esportazione dei propri capitali,
fosse anche solo a fini speculativi. Ecco perché si spinge fino a sostenere che
la svalutazione dell’euro sarebbe negativa perché penalizzerebbe le nostre
importazioni necessarie, dimenticando che per lo stesso motivo
penalizzerebbe anche quelle non necessarie e favorirebbe tutte le nostre
esportazioni, con indubbi vantaggi per il nostro saldo export-import e, quindi,
per investimenti produttivi, occupazione e PIL!
Il succo del discorso infatti è proprio questo: la elite creditizio-finanziaria e i ceti
possidenti hanno interesse a sostenere tecnicamente solo ciò che risponde ai
loro egoistici interessi di classe. Ciò che non risponde va rifiutato con ogni
mezzo e argomento, a dispetto della sfacciataggine delle bugie propalate allo
scopo. Si considerino, ad esempio i seguenti altri due argomenti del P.U.:
-a)l’inflazione dipenderebbe dall’aumento della domanda interna e
dall’aumento della massa monetaria.
-b)la crescita dell’indice di borsa corrisponderebbe all’interesse di tutti, mentre
la sua contrazione ci danneggerebbe tutti.
Sotto il primo profilo, si dimentica che quando aumenta la domanda, perché
possano aumentare i prezzi occorre che l’offerta non aumenti altrettanto. Ed
infatti è proprio ciò che accade per precisa volontà dei trust, che, quando sale
la domanda, sottodimensionano volontariamente l’offerta per strozzare i
compratori onde trasferire sui prezzi la tensione esercitata dalla porzione di
domanda così lasciata volontariamente insoddisfatta, secondo l’uso
dell’ingrosso agroalimentare che distrugge periodicamente le derrate che sono
in eccesso rispetto a quelle minori quantità che se solo quelle
commercializzate fanno salire il prezzo tanto da permettere di lucrare il
massimo profitto percentuale rispetto al capitale investito. Volontarietà che è
ancora più caricaturale in tempi di stagflation, quando per fare salire i prezzi i
trust contraggono l’offerta ancora di più rispetto a quanto non stia calando la
domanda! Dal che discende pure che l’inflazione e la stagflation si
contrastano solo con il calmiere all’ingrosso e l’anti-trust, non certo con
la deflazione! Quanto poi all’aumento della massa monetaria, basta qui
sottolineare che l’inflazione può essere provocata solo da una moneta
aggiuntiva che si trasformi in un aumento sul mercato interno della domanda di
beni e servizi, ma, come abbiamo appena visto, questa sarebbe oltretutto una
inflazione “da trust” e non “da domanda” o “da moneta”, come falsamente
sostenuto dal P.U.
Sotto il secondo profilo, va considerato che quando aumenta il prezzo al mq
del mattone o l’indice di borsa senza che sia corrispondentemente aumentata
la qualità degli immobili o la ricchezza “reale” che i titoli dovrebbero pur
rappresentare, non si verifica nessuna crescita della ricchezza, e tanto meno
di quella comune, ma solo una inflazione speculativa dei cespiti che
consente ai possessori di titoli inflazionati speculativamente di comprare con
essi, sostanzialmente senza pagare davvero, più beni e più servizi di prima,
ridistribuendo a proprio vantaggio e a danno dei ceti produttivi (profitto e
salario) una quota sempre crescente della medesima ricchezza di prima, da
questi ultimi soltanto prodotta. Potenza della “falsa coscienza”!
Potenza della egemonia culturale della sezione apicale del blocco sociale
dominante delle società a capitalismo maturo!
Veniamo allora al tema della speculazione borsistica e valutaria e chiediamoci
come sia possibile che le piazze non si riempiano di manifestanti inferociti
contro le borse e la speculazione finanziaria nel momento in cui nessuno
riesce a trovare una sola ragione positiva perché valga la pena tenere in vita
questa speculazione, mentre ne trova a decine di ragioni che consiglierebbero
la sua eliminazione.
Ed infatti, la crescita dello spread dei bot italiani che tanto ci affligge da
costringerci ad adottare provvedimenti estremi nella speranza di “rassicurare” i
mercati finanziari, è semplicemente dovuta alla scelta politica di non vendere i
nostri bot a trattativa privata o direttamente alla BCE a costo-zero o, al
massimo, al tasso di sconto (1,25%) al quale vende gli euro alle banche
collocatarie dei bond, bensì in mercati finanziari che sono dominati da pochi
grossi speculatori internazionali che hanno la possibilità economica di
scommettere a credito quantità gigantesche di denaro contro i nostri bot
prendendo a pretesto il nostro rapporto debito pubblico/PIL e la nostra
recessione in atto, facendo salire a piacimento lo spread. Pretesti e non cause,
si badi bene, laddove di pretesti se ne possono accampare sempre per
scommettere contro qualsiasi valuta, titolo o commodity. Si rifletta, a questo
proposito, sul fatto che se il nostro rapporto debito pubblico/PIL è oggi del
120%, era del 124% già nel 1994, mentre quello della GB e degli USA è al
100%, quello della RFT al 90%, laddove il rapporto debito privato/PIL di questi
stessi stati è al 40% per l’Italia ed al 100% per GB ed USA! Perché, allora, la
speculazione ha aggredito oggi l’Italia e non l’ha aggredita nei 20 anni
precedenti? Perché non aggredisce a maggior ragione la GB, gli USA e la
RFT? E ancora: perché il Giappone, che ha un rapporto debito pubblico/PIL
del 225% non vende i propri bond sui mercati finanziari e li colloca
elettronicamente solo al suo interno, presso le proprie banche? Se li
collocasse sui mercati internazionali, quale sarebbe il suo spread? E ancora,
perché oggi tedeschi, inglesi e americani dovrebbero stringere la cinghia per
rimborsare con ricchezza “reale” un debito pubblico che è stato raddoppiato in
una sola notte a tedeschi e inglesi, e moltiplicato per 19 volte in pochi anni agli
americani, per … “salvare” le banche e le assicurazioni travolte dei derivati
speculativi sui sub-prime, derivati che per converso erano vincenti per le altre
banche che avevano invece azzeccato quelle scommesse? Perché abbiamo
privatizzato a partire dal ’94 le nostre 4 banche pubbliche collocatarie dei nostri
bot? Perché l’abbiamo fatto a prezzi sottomultipli dei soli interessi su quei bot
… utilizzando quali consulenti per la formazione del prezzo i consulenti
(Goldeman Sachs) degli acquirenti? E pensare che fino ad allora il nostro
debito pubblico, oltre ad essere sottratto a ogni manovra speculativa, era solo
una “partita di giro”, venendo a coincidere la figura del debitore (lo stato) con
quella del creditore (le banche pubbliche collocatarie)!
Oggi, invece, ci troviamo a discutere se si possa o si debba modificare la
clausola statutaria della BCE che le vieta il prestito diretto ai vari Tesoro
nazionali, mentre facendolo riusciremmo a scavalcare quella mediazione delle
banche private che viene resa costosissima dalla speculazione sui Credit
Default Swap, ovvero dalle assicurazioni sul default, che fa
corrispondentemente schizzare in alto lo spread dei nostri bot.
Insomma, troviamo naturale lasciare fissare il tasso di interesse dei nostri bot
dai mercati speculativi anziché reperire gli euro necessari a costo-zero dalla
BCE, e poi troviamo altrettanto naturale fare delle finanziarie lacrime e sangue
per conseguire un avanzo primario di ben 80 Mld l’anno, che bruciamo per
pagare questi interessi inutili e costosissimi. Ed invece non è affatto
“naturale”! Allo stesso modo di come non è naturale il silenzio di scienza,
media e politici sul punto, che dimostra l’enorme attuale grado di controllo del
pensiero collettivo da parte della elite creditizio-finanziaria. Ancora una volta, la
semplice ragione di questa “cecità selettiva” risiede nella ferma volontà della
elite creditizio-finanziaria di continuare a tenere saldamente nelle proprie mani
tutti i governi del mondo attraverso il possesso dei loro debiti pubblici.
Indebitarli in ogni modo e costringerli alle privatizzazioni selvagge, indebitare le
imprese e spingerle alla decozione, indebitare i privati e spingerli nella
condizione di non potere ripagare i prestiti, questa è la ricetta del potere
bancario! CHE FARE?
1)consentendo prestiti diretti dalla BCE al Tesoro allo stesso tasso
(1,25%) praticato alle banche private che poi acquistano i bot al tasso
maggiorato dallo spread nei mercati finanziari, si risparmiano almeno 65-70
degli 80 Mld che oggi paghiamo sul debito pubblico pregresso e si può così
ridurre corrispondentemente il nostro avanzo primario destinandolo a sussidi
alla inoccupazione e sgravi fiscali ai redditi da lavoro bassi e medio-bassi.
Questa manovra provocherà una espansione keynesiana del PIL più che
quadrupla (260-300 Mld), con riassorbimento di circa 4 mln su 5 mln dei
lavoratori oggi disoccupati e aumento delle entrate tributarie pari al 40%
circa dell’aumento del PIL (104-120 Mld), consentendo il progressivo
quanto agevole rimborso del debito pregresso, ulteriori sgravi, sussidi e
opere pubbliche piccole e grandi. E’ così che si avvia la trionfale e graduale
uscita dalla crisi in cui ci ha cacciato il P.U. con le sue ricette deflattivorecessive
nell’esclusivo interesse materiale e ideologico della elite creditiziofinanziaria
e dei ceti possidenti.
2)quale mezzo al fine, occorre pure approntare le riforme necessarie a reggere
i contraccolpi monetari, finanziari e mercantili che vengono provocati dalla
espansione keynesiana del PIL, ovvero tensioni inflattive, tensioni sul saldo
export-import e tensioni ribassiste su euro e titoli di borsa. Ogni espansione
della domanda interna, infatti, in regime di mercato oligopolista, è
accompagnato da un certo aumento dei listini all’ingrosso per effetto della
scelta dei trust di scaricare sui prezzi la tensione esercitata dallo strozzo dei
consumatori che viene da loro esercitata lasciando volontariamente
insoddisfatta parte della domanda, secondo il medesimo stile usato
dall’ingrosso agroalimentare quando periodicamente distrugge a fine di
extraprofitto parte delle derrate che la natura ha prodotto.
-2a)contro un’inflazione “volontaria” è evidentemente inutile qualsiasi manovra
deflattiva e non resta che adottare il calmiere all’ingrosso e l’anti-trust.
-2b)il differenziale di inflazione che residua nonostante queste misure rende
però “non vero” il cambio dell’euro e comporta la sua svalutazione
corrispondente. Va saputo, infatti, che una più alta inflazione a cambio
invariato penalizza la competitività delle nostre imprese allo stesso identico
modo in cui lo penalizza un euro “forte” senza inflazione. Vige infatti il teorema
per cui se un’area valutaria ha un’inflazione più alta rispetto ad un’altra, basta
che svaluti la sua moneta rispetto alla moneta dell’altra area in misura pari al
loro differenziale di inflazione perché resti invariata la competitività relativa
delle rispettive imprese. Per farlo, occorre recuperare il controllo
centralizzato del cambio e dunque riformare coerentemente il trattato di
Maastricht, rinnegando il mito della globalizzazione più estrema e deregolata e
introducendo ai confini della UE i controlli valutari anti-speculazione e antidelocalizzazione
vigenti in quasi tutti i paesi preunitari fino agli anni ’80.
-2c)per proteggere il mercato interno dalla concorrenza “sleale” delle
multinazionali delocalizzate in aree del terzo mondo dove producono
sottocosto nel massimo dispregio della natura (inquinamento selvaggio) e
dell’uomo (spinto fino a tirare sul prezzo dello sfruttamento minorile), con la
pretesa di esportare al nord il 95% della produzione così ottenuta, occorre e
basta introdurre adeguati dazi compensativi da welfare ed ecologia.
-2c)per stroncare le tensioni speculative sulle nostre borse che verrebbero
plausibilmente scatenate da un simile pacchetto di interventi, occorre altresì
introdurre il divieto del credito alla borsa, la nullità dei derivati speculativi
e di tutti gli strumenti deregolati di finanza creativa, e una Tobin Tax, che,
all’occorrenza, può benissimo essere trasformata in una Robin Tax.
Una volta approntato un tale pacchetto di interventi, euro e borse sono
validamente protette dalla speculazione interna e internazionale e si possono
adottare politiche keynesiane in regime di inflazione “controllata” senza più
rischi per borse, cambio ed import-export. A quel punto, però, converrebbe
anche mettere mano alla riforma tributaria e del sistema del credito:
3)ponendo fine alla detassazione dei redditi da capitale (12,5%) e dei
patrimoni (zero %) si possono sgravare corrispondentemente i redditi da
lavoro dipendente/autonomo e da impresa medio-bassi, rafforzando gli
effetti keynesiani espansivi delle manovre governative.
4)separando i rami d’azienda commerciali dai rami d’azienda d’affari delle
banche private, si protegge definitivamente dai contraccolpi della
speculazione il risparmio, il credito d’esercizio e il finanziamento alle
imprese e ai privati.
5)ri-nazionalizzando la Banca d’Italia spa si restituisce al governo il
controllo del credito (calmierando i nostri incredibili e recessivi 130 Mld
di oneri finanziari privati annui) e quello della moneta, mentre
nazionalizzando i rami d’azienda commerciali delle banche private si
consegna finalmente allo stato il potere di battere la principale moneta
circolante nel sistema: la moneta bancaria!
ALTRIMENTI?
Ove si rivelassero insuperabili le resistenze politiche frapposte dagli ambienti
creditizio-finanziari, dai trust e dai ceti possidenti ad una simile riforma della
UE, non resterà che invitare alla secessione valutaria i PIIGS, paesi che non
hanno alternative a un simile programma se non la recessione regressiva
indefinita, fino all’inevitabile crack sistemico prossimo venturo. Ciò che non
può o vuole fare l’Europa di Maastricht, lo può e deve fare l’Europa dei PIIGS,
con il suo euro “vero” protetto da adeguati vincoli valutari, borsistici e doganali
anti-speculazione, anti-delocalizzazioni e anti-trust.
Cominciamo a fare cultura contrastando il P.U. a partire dalle sue bugie più
macroscopiche e di facile comprensione, fino a distruggere progressivamente
tutto il suo fragile impianto teorico.
E IL PROF. MONTI?
Prigioniero del P.U. ed in macroscopico conflitto di interessi con gli ambienti
creditizio-finanziari, il più politico dei governi possibili, il governo Monti,
non può che varare l’ennesima finanziaria recessiva e regressiva (v. nn.
1-6, pag. 1) che avrebbe potuto ben varare un qualsiasi governo Bersani-
Berlusconi, forse meno spinta, per sfruttare in melius la propria accreditata
credibilità, forse più spinta ancora (v. nn. 7-10), per sfruttarla in pejus, se
davvero chi lo manovra vuole spingere più velocemente l’intero sistema verso
la catastrofe per costruire più rapidamente sulle sue ceneri un nuovo ordine
mondiale. In ogni caso, un simile governo è assolutamente incapace
intellettualmente e politicamente di anche solo concepire nulla che vada in
senso espansivo-inflattivo, la tassazione dei redditi da capitale e dei patrimoni
o alcun freno contro le avide banche e la criminale speculazione finanziaria.
Ne paghi dunque, almeno, il prezzo politico.
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