“Il 18 brumaio di Luigi Buonaparte” di Marx prende avvio con una frase celeberrima, che recita pressapoco: “La Storia si ripete sempre due volte, la prima in tragedia e la seconda in farsa”. La socialdemocrazia per la seconda volta compie l’errore tragico, già fatale all’avvio del secolo scorso, questa volta non senza cadere nel ridicolo. Il marxismo-leninismo ha rimproverato alla socialdemocrazia, in particolare tedesca a partire da Bernstein, di rinunciare alla rivoluzione per opportunismo e cedimento al capitalismo. L’accusa è infondata e soprattutto tale da travisare gli aspetti della questione. La socialdemocrazia aveva ragione nel negare la presenza in Occidente di condizioni rivoluzionarie.
Un sano riformismo era il massimo che si poteva ottenere e stesso discorso vale per adesso. Ma la (vera) colpa della socialdemocrazia di allora fu quella di rinunziare, oltre che alla rivoluzione, anche alla lotta di classe ed al conflitto sociale, e in tale ottica di accettare l’integrazione nello Stato, alimentando il mito di un’ istituzione neutra rispetto alla lotta di classe, ed addirittura accettando lo Stato stesso nelle sue manifestazioni peggiori, il militarismo e la guerra globale: Bernstein votò (facendo votare in tale senso anche l’intera socialdemocrazia tedesca) a favore del finanziamento dei crediti di guerra al momento dell’entrata della Germania nella prima guerra mondiale per rendere l’integrazione della classe operaia nello Stato irreversibile e per porre le basi per riscuotere il dividendo della auspicata (e poi non realizzata) vittoria (stesso errore fu fatto da D’Alema nel ’98 nella guerra in Bosnia, ma tra Bernstein e D’Alema vi è una profonda differenza, Bernstein si rese conto dell’errore e non lo ripeté nel 1917, anche se la frittata era già stata fatta, mentre D’Alema, a quanto pare superiore a Bernstein, non ha mai fatto autocritica). Rosa Luxemburg capì la portata disastrosa dell’errore di Bernstein e, causticamente, osservò che grazie a lui da allora in avanti l’operaio tedesco non avrebbe più combattuto il padrone tedesco ma l’operaio francese in virtù non della differenza di classe ma del diverso colore della divisa (il concetto fu poi immortalato da Fabrizio De Andrè ne “La guerra di Piero”): Lenin fu invece geniale nella tattica ma debole nella strategia quando capì che la guerra mondiale avrebbe reso ancora più deboli gli anelli deboli del sistema favorendo l’aggressione a loro, ma trascurò che avrebbe generato, o meglio reso inattaccabile, il morbo del militarismo atto a sostituire al lotta di classe. La socialdemocrazia entrò tanto in tale ottica di integrazione nello Stato che con la Repubblica di Weimar pensò a combattere l’estrema sinistra consiliarista (di Rosa Luxemburg e Karl Liebkneckt) e poi quella comunista, vedendo in essa il vero nemico piuttosto che il nazismo, con le conseguenze nefaste ben note. Se aberrante era l’epiteto di social-traditori rivolto ai socialdemocratici tedeschi da Stalin e dalla III internazionale, è però vero che la socialdemocrazia fallì il proprio compito e tradì il proprio ruolo e contribuì con ignavia e miopia alla vittoria del nazismo. Stesso discorso con Saragat che con grande lungimiranza si distaccò dal frontismo filo-sovietico ma finì succube della democrazia cristiana e degli americani (sostenendo l’invasione del Vietnam) ed addirittura da Presidente della Repubblica gestì in modo quanto meno ambiguo e indulgente nei confronti del ruolo deviante dei servizi segreti nella bomba di Piazza Fontana, e con Craxi che con grande lungimiranza portò il Partito socialista a rinunziare ad ogni ipotesi rivoluzionaria ma poi tradì il riformismo a favore di un moderatismo con punte di vero e proprio conservatorismo che ha anticipato Berlusconi. Certamente, nel secondo dopoguerra, la socialdemocrazia europea ha strappato al capitale molte conquiste sociali importanti, ma si è trattato di conquiste che il capitale ha deciso graziosamente di farsi strappare per allontanare dall’Occidente il fantasma del comunismo.
Crollato questo, con la sua minaccia, il capitale si è rimangiato le conquiste, con la scusa che lo Stato sociale, con il suo costo molto elevato, sia un lusso che non si può più permettere, scusa inconsistente visto che le crisi finanziarie e gli scandali speculativi sono costati molto di più. Ma non solo, il capitale rende impossibile ogni scelta sociale impedendo alle masse di esprimersi democraticamente –vale a dire, consente loro le elezioni, ma impedisce ogni posizione a sé contraria, come in Grecia-, tenendole sotto scacco con il debito pubblico, se non creato comunque alimentato artificiosamente e gestito dalle grandi banche d’affari internazionali, che rende impossibile ogni riforma. La socialdemocrazia ha accettato supinamente tale situazione e nella crisi Greca ha appoggiato irresponsabilmente la Merkel –addirittura, in via più generale, la socialdemocrazia tedesca ha dichiarato che non si presenterà alle elezioni in alternativa alla Merkel- ed attaccato, con offese ed ingiurie da maramaldo Tsipras –patetico in tal senso è stato il tedesco Schulze che in molti, tra cui lo scrivente, avrebbero voluto Presidente dell’Europa-. La sinistra radicale italiana non riesce a trattenere la propria soddisfazione per il crollo della socialdemocrazia, ma non si rende conto che il radicalismo di sinistra deve allearsi forzatamente con il populismo e l’antipolitica e quindi porsi in posizione se non nazionalista comunque localista, il che la porta a tradire la propria natura. Il riformismo antiliberista proprio della migliore tradizione socialdemocratica, poi rinnegata, è la migliore –anzi l’unica razionale- soluzione, ma non si può correre dietro alle illusioni –sempre nella stessa opera, Marx affermò splendidamente “Gli uomini fanno sì la storia, ma entro determinate condizioni”-. Conseguentemente, un vento di protesta sociale che si caratterizza in termini populistici e localistici è l’unica alternativa realistica al liberismo: peraltro, non è sufficiente, ed è illusorio il convincimento della sinistra radicale che da una protesta generalizzata ed estrema possa (prima determinarsi il crollo di quella attuale e poi) nascere una nuova forma di società, in modo che non si può in nessun modo rinunziare a porsi il problema di una direzione politica e democratica di tale vento di protesta. Ebbene, la socialdemocrazia non è all’uopo idonea in quanto non può essere rigenerata, ed infatti, la conflittualità e la critica nei confronti del capitalismo le sono estranee ed è diventata una componente del sistema. Ed allora una componente riformistica antiliberista come può configurarsi, una volta venuta meno l’ipotesi socialdemocratica? Il punto di ancoraggio è rappresentato dalla democrazia e dalla difesa ad oltranza di questa contro l’autoritarismo del capitale –e su questo Tsipras è stato grandioso, a prescindere di come andrà a finire la sua meravigliosa avventura politica-. In tale ottica, imprescindibile è la denuncia dell’illegittimità del debito pubblico in una sua parte consistente in quanto derivante da abusi delle grandi banche d’affari internazionali.
Tale denuncia comporta che la protesta sociale non è più populista ed estremista ma si risolve in una politica economica rigorosa improntata alla più ferma legalità e democrazia, oltre che razionalità economica: e tale politica economica richiede una riforma della finanza, non mediante penalizzazione delle banche o loro nazionalizzazione –illusorie come più volte evidenziato da chi scrive- ma mediante un loro vincolo ed una loro ferrea direzione in un contesto di programmazione pubblica. Il vero problema è, una volta venuta meno l’ipotesi socialdemocratica, come far nascere il nuovo riformismo antiliberista appena visto, che tra l’altro, detto per inciso, si ricollega alla stessa migliore tradizione socialdemocratica nella versione prima del tradimento. Il rischio è che tra liberismo (ivi compresi il centro e la pseudo-sinistra ad esso soggiogati) e protesta sociale vi sia terra bruciata. Il problema è irresolubile se il riformismo pretende di porsi in posizione mediana, riprendendo l’errore tragico della socialdemocrazia: diverso il discorso se invece si colloca all’interno del movimento di protesta sociale, alla cui guida legittimamente aspiri.