La fine del 2014 vede la ripresa economica dell’America con +4° del PIL: di qui il commento entusiasta dei liberisti che vedono come un’economia priva di limiti all’impresa e priva di tutele eccessive per i lavoratori alla fine sia destinata (vedremo cosa diranno costoro quando l’abolizione del divieto ingiustificato di cui all’articolo 18 Statuto dei lavoratori non provocherà effetti positivi di rilievo), inevitabilmente, allo sviluppo, a favore anche dei deboli. I meriti di Obama vengono in tale ottica considerati, ma anche alla luce della circostanza che la coabitazione forzata con il Congresso dominato dai repubblicani ha attutito alcune riforme economiche di sinistra troppo spinte a favore della ripresa del “welfare”. E’ agevole replicare mostrando un elemento fondamentale: ed infatti, tale successo è favorito dal ribasso del prezzo del greggio e dai problemi della Russia e quindi dalla potenza americana e non da fattori economici intrinseci. La connessione tra aspetti internazionali ed aspetti economici è così forte che si rivela azzardato poter parlare di una vitalità intrinseca dell’economia americana. Il petrolio e le risorse energetiche, oggetto di complessi nodi di politica economica, condizionano l’economia interna. La crisi economica dell’Occidente è irreversibile, allo stato degli assetti di sistema, vale a dire senza una riforma profonda in senso socialdemocratico di sinistra, mentre la politica internazionale è uno strumento per traslare la crisi all’esterno. Di qui la differenza, all’interno dell’Occidente, tra Stati deboli e Stati forti: la stessa Germania, dall’economia solida, può peraltro rimuovere gli elementi di criticità esclusivamente con il dominio dell’Europa. Ma allora, l’economia non è l’elemento decisivo? No, è l’elemento decisivo, solo che la stessa va intesa non a livello locale, ma a livello globale, come Marx genialmente comprese: fu non solo intuizione, ma individuazione delle leggi del sistema, anche se non riuscì a trarne le conseguenze politiche, visto che propugnò l’internazionalismo operaio, non comprendendo questa volta che tale internazionalismo era destinato a cedere di fronte all’internazionalismo del capitale, questi ben naturale, alla luce della sua tendenza a dematerializzarsi, a differenza di quello operaio, alla luce della natura stanziale ed ancorata strettamente al territorio dei lavoratori non qualificati). In definitiva, il capitalismo è in crisi economica, intrinsecamente irreversibile, che può gestire e distribuire con successo gli effetti della crisi in virtù dell’imperialismo. Di qui la complessità della conclusione, che mostra che l’economia è sì dominante ma con l’avvertenza che l’economia è strettamente ed anzi indissolubilmente legata alla politica internazionale: il corollario è che la riforma dell’economia è impossibile senza il riscorso al diritto internazionale, dovendo abbandonare i vetusti schemi del marxismo-leninismo nel senso sia, nella degenerazione stalinista, della possibilità di un utilizzo dell’imperialismo contrapponendo a quello capitalista uno proletario, sia dell’attacco al sistema negli anelli più deboli con il ricorso all’indipendenza nazionale, che al massimo può avere il sopravvento riguardo all’aspetto politico ma non a quello economico. La necessità del diritto internazionale, che non è solo da anime belle, come il marxismo– leninismo ha predicato sbagliando profondamente, non è però sufficiente se non si inserisce nel nodo fondamentale. Il nodo fondamentale è rappresentato dall’impossibilità di una riforma a livello (solo) nazionale. E così, la riforma del sistema può avvenire esclusivamente a livello globale accompagnando la trasformazione in senso completamente capitalistico dei Paesi non ancora tali o addirittura non ancora capitalisti. La rivoluzione è impossibile senza una preventiva trasformazione in senso capitalista (maturo e sviluppato, si può aggiungere ora) come genialmente compreso da Rosa Luxemburg, oltre cent’anni fa? Ebbene, è agevole replicare che il capitalismo, che ben può convivere con gli scambi ineguali –vale a dire con profitti realizzati mediante prezzi totalmente indipendenti dal valore, ed a questi superiori, a differenza di quel che riteneva Marx che valutava il plusvalore possibile solo nello scambio capitale-lavoro-, non consentirà mai l’evoluzione in tal senso di tutto il mondo. Di qui la conclusione che il sistema è non riformabile. Con ciò non si passa su posizioni estremiste, visto che, senza la preventiva riforma di tutto il sistema, la rivoluzione è impossibile, come compreso da Marx che escluse la possibilità di saltare le fasi dell’evoluzione sociale. Allora, il capitalismo è eterno? La sua tendenza alla distruzione senza una riforma profonda, che lo stesso non tollererà mai, creerà crisi sempre più gravi: di qui la possibilità di una soluzione, i cui estremi sono ancora lungi dall’essere individuati, esclusivamente in caso di “shock” profondi e dalle conseguenze gravissime, al livello di anticamera di un crollo (inteso non solo in senso economico ma anche di vera e propria barbarie).