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IL LAVORO TRA IL DIRITTO CON LE SUE TUTELE E LA POLITICA: UNA SFIDA PER LA SINISTRA

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Non si può negare che, nell’ambito del vento di sinistra che nel secondo dopoguerra fino agli anni ’70 compresi ha portato in Europa a grandi conquiste a favore del lavoro e dei lavoratori dipendenti, l’Italia si è caratterizzata per un’accentuazione delle tutele, che ha caratterizzato le stesse tutele in senso non solo quantitativo, ma anche qualitativo. Il diritto del lavoro è nato, in Inghilterra e in Germania a cavallo tra i due ultimi secoli , ed ha ricevuto avuto base teoria molto raffinata in Germania ai tempi della Repubblica di Weimar: base teorica che ha portato ad un’elaborazione di grande livello. L’inattualità del presupposto che la muoveva, l’ipotesi di una transizione democratica a sistema economico superiore, non rende altrettanto inattuale l’elaborazione stessa. La sua essenza è quella di distaccarsi in termini accentuati dal diritto civile cui appartiene; in particolare, il contratto di lavoro registra una profonda autonomia rispetto al contratto in genere; il contratto di lavoro è contraddistinto dalla subordinazione del lavoratore, che è sottomesso, per la totalità della sua attività lavorativa e quindi per soddisfare le esigenze fondamentali per una vita dignitosa propria e della propria famiglia, ai poteri gerarchici dell’imprenditore ed è vincolato alle sue scelte organizzative e gestionali, scelte meramente unilaterali. La subordinazione è l’elemento essenziale del contratto di lavoro: certamente, vi è alla sua base una concezione sociale di tutela dell’esigenza di soddisfare le esigenze fondamentali per una vita dignitosa del proprio nucleo famigliare. Ma sarebbe riduttivo risolvere il tutto in esigenze sociali e quindi in una determinata visione politica: si trascurerebbe così la portata scientifica del diritto del lavoro. La subordinazione è l’elemento essenziale del diritto del lavoro in quanto la tutela della linea di soddisfare le esigenze fondamentali del proprio nucleo famigliare è un aspetto oggettivo che qualifica gli assetti sociali, senza la quale manca “in limine” la possibilità di equilibrio sociale e si crea una situazione di instabilità, vale a dire un conflitto non fisiologico ma patologico e tale da minare le basi della convivenza civile. Ma non solo: la tutela della linea di soddisfare le esigenze fondamentali del nucleo famigliare del lavoratore quindi non mette in discussione la subordinazione e il ruolo dell’impresa e del profitto, ma addirittura li tutela da antagonismi e da rivolgimenti sociali, ponendo i lavoratori interessati oggettivamente al buon andamento dell’impresa, in quanto atta a soddisfarne le principali esigenze. Alla luce della subordinazione vi è la necessità di apportare limiti strumenti all’autonomia delle parti, e di tutelare in modo incisivo il lavoratore. Di qui la tutela dell’autonomia sindacale, arrivando di fatto se non diritto, per mancata applicazione dell’art. 39 Costituzione, a un contratto collettivo di categoria a livello nazionale, inderogabile “in pejus” , alla piena tutela del diritto di sciopero, anche nelle forme più dure e più conflittuali, e poi lo statuto dei lavori, con il divieto di discriminazione , il divieto di “demansionamento”, il divieto di licenziamenti ingiustificati per il personale non dirigenziale di imprese con dipendenti di numero superiore a 15 (art. 18 dello Statuto dei lavoratori) e il sostegno giudiziario all’attività sindacale. Nella stessa ottica, la distinzione tra contratto di lavoro subordinato e contratto di lavoro autonomo ha solo natura oggettiva e basata sulle caratteristiche della prestazione, al fine di accertare, esclusivamente, la sussistenza o no della subordinazione: la volontà delle parti è secondaria e marginale se non addirittura irrilevante. Negli anni ’90 ha avuto avvio un faticoso lavorio di decomposizione e demolizione che ha dato i propri frutti nel nuovo millennio: ciò anche sulla base delle suggestioni derivanti da alcune tendenze giurisprudenziali decisamente sbilanciate, con eccessi ed esagerazioni, a favore del lavoratore. Senza poter dar conto di tutti passaggi, nella seconda metà anni ’90 e nel primo decennio del secondo millennio si è operata la piena tutela della flessibilità, prevedendo, con misure legislative definite con la c.d. legge Biagi del 2003, la salvaguarda del lavoro autonomo e una serie di nuove figure e nuovi istituti di lavoro autonomo. In tal modo si sono poste le basi per accettare l’impostazione di Pietro Ichino -giurista di area di sinistra riformista, nei fatti liberista con leggera edulcorazione , purtroppo destinatario di minacce non isolate delle “nuove Brigate Rosse”, il che, anche alla luce delle morti, per mano terrorista, dei “giuslavoristi” D’Antona e Biagi, introduce nel dibattito una variante agghiacciante-, secondo cui la distinzione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato è di natura volontaristica, con l’autonomia contrattuale che è piena e che non incontra limiti oggettivi: Ichino, certamente, evidenzia che la volontà deve essere vera e reale e non simulata; ma si tratta di precisazione di grande momento teorico ma di fatto irrilevante; una volta che ci si incentra sulla volontà della parti di avere un rapporto autonomo, anche in presenza di subordinazione, vale a dire di lavoratore che di fatto dipenda da un solo datore (esclusiva) e che non abbia una particolare qualificazione professionale (lavoratore autonomo, professionista) o dei clienti a lui strettamente legati (agente), la volontà delle parti è artificiosa e fittizia. Gli elementi posti da Ichino a prova dell’effettività della domanda, quale il luogo di lavoro ed il tempo di lavoro se rigidi o autonomi, sono infatti secondari, in quanto prescindono se non in via solo presuntiva dalla subordinazione che invece è collegata esclusivamente alla dipendenza effettiva e non derogabile del lavoratore nella pressoché esclusività delle propria energie dall’imprenditore, e conseguentemente non incidono sulla sostanza della prestazione. In tale opera svolge un ruolo essenziale un attacco serrato e continuato all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori con il suo divieto di licenziamento ingiustificato per le imprese con dipendenti dal numero superiore a 15: nell’art. 18 vi è la tutela reale del posto di lavoro, senza che sia sufficiente un risarcimento od un’indennità; si vuole quindi, con tale attacco, fino al Governo Monti rimasto senza esito, arrivare alla piena libertà di licenziamento da parte dell’impresa. Recentemente, Pietro Ichino ha perfezionato –con il consenso di Veltroni e l’appoggio forte ed incisivo di Monti e Giavazzi - la sua proposta di abolizione dell’art. 18, sostituendo la tutela reale del posto del lavoro con una di natura indennitaria, con l’entità dell’indennità in aumento in funzione dell’anzianità di servizio, e con maggior rigore in caso di licenziamenti discriminatori : il tutto con ammortizzatori sociali a favore dei disoccupati e con un sistema, gestito da sindacati e imprenditori, atto a ricollocare i disoccupati. Ichino, per sottolineare che la sua posizione è l’unica realista di tutela dei lavoratori, ha posto in risalto tre distinti aspetti: in primo luogo, l’eccesso di tutela del posto del lavoro e di rigidità nei licenziamenti costringerebbe l’impresa a far diminuire il costo del lavoro per compensare gli oneri di licenziamento; trattasi di argomento manifestamente infondato, in quanto l’affievolimento dei fattori di rigidità si è accompagnato ad un sempre maggiore deterioramento della situazione economica dei lavoratori, il cui potere di acquisto è sempre andato diminuendo. In effetti, l’indebolimento della tutela normativa del lavoratore altera definitivamente i rapporti di forza tra le due parti e lo pone in condizioni di dipendenza assoluta rispetto all’imprenditore, con particolare riferimento alle richieste di questi di “demansionamento” del lavoratore e di diminuzione del salario. In secondo luogo, Ichino evidenzia che l’imprenditore non ha alcun interesse a licenziare il lavoratore se non necessario: si trascura così che il problema si pone a livello individuale, con l’imprenditore oggettivamente interessato a licenziare i dipendenti meno giovani, dalla produttività minore; si creerebbe una profonda disgregazione sociale, in contrasto con l’esigenza, da tutti condivisa, di alzare l’età pensionabile. In terzo luogo, Ichino evidenzia che una tutela più rigorosa è necessaria per i licenziamenti discriminatori, vale a dire dettati da esigenze politiche, sindacali, razziali: si tratta di argomento del tutto privo di realismo, in quanto licenziamenti discriminatori sarebbero assistiti da motivazioni, anche prive di effettività, che a tutto farebbero riferimento tranne che a discriminazione; una volta eliminata la necessità della giusta causa e del giustificato motivato, la libertà di motivazione sarebbe certamente illimitata. I licenziamenti discriminatori non erano un’ipotesi di scuola già prima di Marchionne: qualche estate fa le Ferrovie dello Stato hanno licenziato un dipendente, tra l’altro anche rappresentante sindacale, “reo” di aver segnalato con foga presunte carenze in materia di sicurezza dei macchinari ed anche del materiale dei vagoni, imputando alle stesse alcuni incidenti verificatisi. Senza prendere posizione sul caso di specie, spetta al lavoratore il pieno diritto di critica nei confronti dell’azienda e del suo vertice -e ciò in termini ancora più accentuati in capo ai rappresentanti sindacali- , con l’unico limite costituito dal divieto di diffusione di notizie false e di comportamenti diffamatori, limite che certamente non ricorre in presenza di opinioni. La legge Fornero ha concluso, “rectius” ha posto le basi per concludere quest’opera ed ha liberalizzato i licenziamenti, sia pure in modo timido e non lineare, consentendo il licenziamento anche non giustificato con pagamento di indennità con il divieto di licenziamenti discriminatori: il tentativo è timido e quindi l’unica sentenza finora emanata in applicazione ha disposto la reintegra. La legge Fornero è importante in quanto rompe il tabù e quindi per ragioni di principio: una volta infranto il tabù sarà agevole intervenire più incisivamente: la legge ha tentato di porre un freno alla proliferazione di contratti di lavoro autonomo con una severa disciplina; di fronte alle lamentele delle imprese, questa sarà ridimensionata. Che il divieto di discriminazione ribadito dalla legge Fornero e mantenuto fermo anche da Ichino sia una vera e propria foglia di fico è del tutto pacifico: di fronte alle sentenze che hanno sanzionato ipotesi di discriminazioni della Fiat a danno della Fiom, unica organizzazione sindacale recalcitrante nei confronti dei modelli organizzativi e contrattuali imposti dalla Fiat, questa ha reagito ponendo in mobilità, evidentemente con l’intento di licenziarli, i dipendenti non iscritti Fiom per fare posto a questi, in modo da porre i dipendenti Fiom contro gli altri, e creare una pressione sui lavoratori in generale e sull’opinione pubblica e determinare un’ostilità nei confronti della stessa Fiom, le proteste sono flebili e Ichino, in modo salomonico, ha invitato entrambe la parti a fare un passo indietro, la Fiat ad accogliere senza ritorsioni gli iscritti Fiom e quest’ultima ad accettare il contratto integrativo Fiat, come se fosse ammissibile la discriminazione a carico di chi non accetta le proposte aziendali. L’accordo per la produttività tra parti sociali e Governo ha previsto la possibilità di deroghe al divieto di “demansionamento”, finora giustamente inderogabili, ed è facile che vi sarà una norma a suggello, il che discenda pacificamente dalla liberalizzazione dei licenziamenti, grazie a cui i lavoratori sono costretti ad accettare tutto pur di non perdere il posto di lavoro. Le banche stanno per attuare una trasformazione in massa dei contratti di lavoro dipendenti degli addetti al rapporto alla clientela in contratti di agenzia per lo svolgimento dell’attività di promotore finanziario: la figura del promotore finanziario è di sicuro caratterizzata da dinamismo. Ma che ne sarà dei diritti di migliaia di persone , molti non più giovanissimi? La direzione di marcia è chiara: si intende abolire l’anomalia (felice) del diritto del lavoro, trascurando così che il diritto del lavoro è strettamente legato al diritto dell’impresa e che la fine del primo porta a minare anche le basi del secondo, quale disciplina di un’entità distinta ed autonoma rispetto all’imprenditore: il deterioramento delle condizioni normative e economiche dei lavoratori crea una disaffezione dei lavoratori nei confronti dell’impresa, che così si risolve nel mero arbitrio dell’imprenditore. Senza la tutela dei diritti die lavoratori viene meno l’impresa con la stessa produzione di ricchezza, e l’imprenditore finisce con il restringere il suo ruolo a quello di speculatore pronto a cogliere le migliori occasioni di lucro dove sorgono mediante un’attività che è finanziaria e commerciale più che imprenditoriale. La mobilità dei lavoratori e la flessibilità dell’impresa sono valori fondamentali, soprattutto in un’economia globalizzata, ma non devono comportare la compressione dei diritti dei lavatori: l’istituto previsto da Ichino di gestione, a cura dei sindacati e delle imprese, della sorte dei disoccupati è meritevole di attenzione, ma solo quale condizione per il licenziamento e non da attivare solo dopo il licenziamento stesso. La salvaguardia del posto di lavoro e del potere d’acquisto dei lavoratori deve essere irrinunciabile,e conseguentemente il diritto del lavoro non deve essere “normalizzato”. Bisogna quindi tornare alla subordinazione ed alla sua centralità: non è un caso che in Italia la subordinazione fosse stata posta al centro dell’ordinamento dalle riflessioni di uno dei padri del diritto del lavoro italiano, Renato Scognamiglio, certamente non marxista e certamente non simpatizzante per qualsivoglia forma di radicalismo politico. Certamente, negli anni ’70 la teoria della subordinazione era stata presa a propria base anche da parte della teoria marxista e della sinistra radicale, la quale non si avvedeva che l’eliminazione della del lavoro subordinato in una società socialista correva il rischio di essere fittizia e nominale e di fatto di comportare l’eliminazione delle tutele del diritto del lavoro in quanto rese superflue da tale supposta eliminazione, il che si è puntualmente verificato nelle società del socialismo reale. Anche a seguire le tesi libertarie del socialismo non statizzato ma basato sull’autogestione e sui consigli operaio, alla fine se si ritiene che la presenza dell’identificazione del datore di lavoro con la stessa comunità di lavoratori sia sufficiente a configurare la socializzazione, da un lato si trascura che in ogni caso il comando è necessario, e quindi la natura fittizia è dietro l’angolo e in ogni caso che così giustifica il venir meno dell’esigenza di tutela, non essendo necessario tutelarsi da sé stessi. D’altro canto, la tesi sostenuta da uno dei più grandi giuristi di Weimar (Franz L.Neumann), sostenitore già allora di uno sbocco radicale di transizione al socialismo, si rendeva conto di tali insufficienze e, pur ribadendo la necessità di una tutela ferma e incondizionata, in qualsiasi contesto, del lavoratore, concludeva in modo pessimistico sulle evoluzioni del diritto del lavoro, anche alla luce del suo collegamento con la Scuola di Francoforte, connesso all’alienazione del lavoratore, alienazione insuperabile in qualsiasi contesto sociale. L’alienazione è al centro dell’analisi marxista, ed è assolutamente discutibile, come mostrato da Lucio Colletti a suo tempo: con questa il marxismo contesta il capitalismo in modo millenarista ed escatologico e quindi meramente utopista, rinnegando la sua critica dell’utopismo e la sua natura di socialismo scientifico basato sul materialismo storico, rimpiangendo l’eliminazione della distinzione tra prestazione lavorativa e appropriazione del frutto lavorativo, distinzione necessaria in qualsiasi situazione di complessità industriale e di grandi conglomerati produttivi; in questi i lavoratori si devono spogliare in ogni caso di parte degli utili, destinati al rafforzamento dell’azienda, come deciso da chi detiene il comando; anche in presenza di autogestione, vi sarà sempre un gruppo che esercita il comando, in quanto complessi conglomerati produttivi richiedono immediatezza e unitarietà di decisioni. Con il solo contestare la sufficienza della pubblicizzazione dell’economia e dell’economia di piano non si raggiunge il socialismo. Il nodo del comando e dell’autorità non è eludibile. Pertanto, occorre partire dalla tesi della subordinazione, quale magistralmente resa da Renato Scognamiglio in Italia. La stessa si rivela insufficiente, e quindi non a caso è stata superata dalla tesi, meramente giustificazionista del potere dell’imprenditore privato e della mancanza di limiti a tale potere, di modo che non è possibile distinguere tra potere e arbitrio, di Ichino. Le insufficienza della tesi di R. Scognamiglio dipendono dalla sua mancata messa in discussione del potere dell’impresa, potere dell’impresa che se assoluto alla fine non tollera limiti, di modo che l’accoglimento della tesi di Ichino diventa, non scientificamente ma politicamente s’intende, inevitabile. Perimenti insufficiente si rivela il tentativo di un allievo (di sinistra) di Scognamiglio, Pietro Barcellona, sempre negli anni ’60-’70, di collocare la teoria della subordinazione in un’ottica più ampia del contratto in generale, basata sulla contrapposizione sociale tra le due parti contrattuali, contrapposizione sociale in essere non solo tra imprenditori e lavoratori, ma tra imprenditori e tutte le controparti. La generalizzazione del conflitto sociale è assolutamente condivisibile, ma la teoria mostra in pieno i suoi limiti. La contrapposizione sociale comporta la necessità di tutela delle controparti dell’imprenditore, ma non si elude poi l’esito: si mette o no in discussione il ruolo dell’impresa e come, in vista di quale sbocco sociale? Non è un caso che la tutela dei consumatori, posta radicalmente al centro della teoria di Barcellona, che non era e non è un giuslavorista, ma era ed è un civilista (come R. Scognamiglio del resto, ma senza la specializzazione giuslavorista di questi), sia rimasta avvolta in un “consumerism” all’americana, privo di incisione sui rapporti di forza e con in più una deriva spesso assistenzialista, di tutela generica e generale e spesso assoluta, come in materia di risparmio e di utenti di servizi finanziari, dove spesso la tutela si è concretizzata nel traslare il rischio degli investimenti finanziari, dal cliente che ne è il destinatario naturale visto che beneficia dei relativi utili, all’intermediario, anche a prescindere dall’effettività della natura sostanziale e determinante sulle perdite subite dal cliente delle violazioni dell’intermediario stesso In un momento in cui la fine del capitalismo e la transizione ad altro sistema non appartengono all’attualità ed alla concretezza storica e politica, e quindi la prospettiva è, per un periodo non breve e allo stato privo di prospettive di termine finale, esclusivamente riformista, vi sono tutti i presupposti per collocare la teoria della subordinazione in un’ottica di approccio anche scientifico al ruolo dell’impresa. Il lavoro è l’elemento essenziale dell’economia, in quanto è l’unico elemento in grado di fornire obiettività e consistenza all’iniziativa dell’imprenditore: è più importante del capitale, in quanto questi può essere investito secondo criteri di mutevolezza e di dinamismo così accentuati da prescindere da un’attività organizzata in vista della creazione di valore aggiunto, in modo da finire di rispondere a criteri propri di speculazione. Senza il lavoro l’impulso del capitale diventa un fattore di ricchezza non produttivo. Con questo non si vuol tornare alla teoria del valore-lavoro, inutilizzabile in un sistema in cui la produzione non guida la distribuzione e la finanza, né si vuole impostare il discorso sul piano della socializzazione: semplicemente, si vuole evidenziare che la subordinazione del lavoratore all’imprenditore, elemento necessario in un sistema capitalistico, deve essere inserita in un sistema di sostegno del lavoro e di legame del lavoro all’impresa. Da ciò derivano precise ed univoche conseguenze. In primo luogo, la distinzione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato deve essere ricondotta all’effettività della subordinazione, senza alcun rilievo alla volontà delle parti. I contratti di lavoro autonomo non professionale e non promozionale devono essere ammessi per periodi di tempo estremamente circoscritti ed altri termini in casi marginali ed eccezionali. In secondo luogo, il contratto collettivo nazionale deve essere inderogabile in “pejus”. In terzo luogo, il divieto di licenziamento ingiustificato e di “demansionamento” devono essere mantenuti, con riduzione del numero dei dipendenti dell’impresa perché scatti il divieto (dai sedici attuali a 6). Deroghe su tutti i tre i punti possono essere ammesse per imprese piccole e per processi di ristrutturazioni approvati a livello sindacale generale, con garanzie per i lavoratori e con strumenti di controllo (organismi di vigilanza, commissario giudiziale in caso di inadempimenti) . Un progetto globale di governo dell’economia deve essere in grado di inserire tali misure in un sistema organico di programmazione pubblica e di cogestione, che sia in grado di disciplinare capillarmente le relazioni industriali, in modo da ammettere l’elasticità solo se nell’interesse di entrambe le parti. Il rapporto di lavoro mantiene le caratteristiche di gerarchia e di subordinazione ma esclusivamente se rientranti in un’attività di impresa che sia funzione razionale e produttiva e quindi sociale, intesa in senso di equilibrio e di coordinamento.
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  • Last modified on Wednesday, 23 April 2014 12:01