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LA DEUTSCHE BANK “IN DEFAULT” Featured

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La Deutsche Bank è in crisi gravissima, e forse irreversibile con necessità di aiuti degli imprenditori tedeschi e dello Stato: ed ora, “dulcis in fundo”, la propria situazione estremamente critica la costringe a licenziamenti in massa, creando allarme sociale. La questione è gravissima: ma un’analisi leggermente più approfondita porta a concludere che si tratta di gravità addirittura esiziale, idonea a mostrare il disastro dell’economia europea più solida, e quindi dell’economia “tout court”, nonché, in un vero e proprio crescendo rossiniano, il crollo dell’Europa e la fine dell’Occidente. Walter Rathenau, intellettuale, economista, imprenditore e uomo politico (liberal-progressista), Ministro a Weimar, assassinato nell’immediato primo dopoguerra da nazionalisti (precursori dei nazisti), fu sostenitore della concezione istituzionalistica dell’interesse sociale della grande società per azioni, in contrapposizione alla teoria contrattualistica, quest’ultima tesa a ridurre tale interesse sociale a quello comune dei soci, mentre l’altra lo riconduce all’interesse dell’impresa in sé “Unternehmen an sich”. Per inciso, la teoria dominante è sempre stata quella contrattualistica, ma quella istituzionalistica ha ciò nondimeno raccolto costantemente adesioni ampie e diffuse, sia pur in via indiretta, tese a dare rilevo alle esigenze dell’impresa, non totalmente riconducibile alla società ma tale da mostrare rispetto a questa una forte autonomia. I soci, anche ove tutti concordi, non possono prescindere dalla solidità dell’impresa gestita. L’adesione, di fatto, alla concezione istituzionalistica, cacciata dalla porta ma fatta rientrare dalla finestra, è caduta con il capitale finanziaria che ha privilegiato rispetto alla salvaguardia dell’impresa la formazione di plusvalenze vertiginose in virtù di incremento abnorme del fatturato: il Ministro di allora Tremonti affermò che si privilegiava il conto economico rispetto allo stato patrimoniale, e si tratta di affermazione non solo superficiale ma anche del tutto infondata, in quanto le plusvalenze riguardano direttamente il conto patrimoniale. La verità che si privilegia l’imprenditore, inteso come gruppo di comando, rispetto all’impresa: è la configurazione in senso talmente negativo della teoria contrattualistica resa possibile dalla rimozione di quella istituzionalistica. Si tratta non una mera degenerazione, come avrebbe voluto evocare Tremonti, ma all’esatto contrario di una reale dinamica soggettiva e strutturale del sistema. Ebbene, Rathenau, in un famoso scritto, motivò la sua adesione alla teoria istituzionalistica, evidenziando che sulla base ed in applicazione della teoria contrattualistica, i soci avrebbero potuto porre Deutsche Bank in liquidazione, il che avrebbe voluto porre in liquidazione l’intera Germania. Questo, e proprio questo, significa la crisi della Deutsche Bank. Ma come è compatibile tale liquidazione con la florida salute dell’economia tedesca, in virtù essenzialmente di una propensione estrema all’esportazione? Per comprendere a pieno la problematica, occorre premettere che la crisi estrema della Deutsche Bank è singolare in quanto dovuta ad una massiccia ed abnorme posizione in derivati –per cui da anni è considerata non più una banca ma un “hedge fund”, vale a dire un fondo (ultra)speculativo-, di per sé non necessaria in quanto l’incremento impetuoso dell’attività creditizia, da porre al centro dell’operatività, alla luce della solidità dell’industria interna, sarebbe stato dall’esito estremamente felice. Si è invece impelagata nei derivati evidentemente per soddisfare la pretesa ed anzi per l’ambizione di diventare competitiva con le grandi banche d’affari internazionali americane (soprattutto) e inglesi, anch’esse impegnatissime in derivati. Da tale punto fermo, ed innegabile, si può e si deve partire per avviare una ricostruzione della complessa questione nei suoi esatti termini. Il primo aspetto che può fungere da spunto di ricostruttivo di ordine generale è che l’attività creditizia è diventata assolutamente secondaria, non tanto e non solo per i rischi di “default”, quanto piuttosto perché non più strategica e non più in grado di sostenere lo sviluppo ed i conti economici di una grande banca. L’attività speculativa è diventata quella decisiva per lo sviluppo di una grande banca: quella creditizia è secondaria anche quando -raramente- sicura, ma non più in grado di arrecare margini significativi per il bilancio della banca e di suscitare un indotto significativo di operatività. Il secondo aspetto che può fungere da spunto di ordine ricostruttivo generale si delinea se si tiene conto che appare riduttivo vedere il disastro della Deutsche Bank solo in termini di ambizione sfrenata: il capitale finanziario vede il dominio della speculazione non più in funzione della malvagità di singoli ma quale nuovo fulcro della finanza e del capitale stesso. Pertanto, non si si può trascurare l’ipotesi che la crisi sia dipesa da spostamenti stratosferici di risorse con derivati fittizi per connessioni interne al capitale finanziario ed a singoli specifici gruppi di potere. Più persuasiva appare peraltro l’ipotesi che, essendo il capitale finanziario dominante quello anglosassone, questi abbia pertanto abbia imposto una redistribuzione di posizioni di forza, con penalizzazione definitiva dell’Europa continentale ed anche della Germania, la cui forza imperiale si esplica solo nei confronti degli altri Paesi europei. La Deutsche Bank sarà salvata dallo Stato tedesco, mentre le banche italiane e greche, con minore esposizione, sono state sacrificate a conferma della natura fittizia dell’Europa, se non come Impero tedesco con supporto francese. Tale ipotesi viene avvalorata da un dato sicuro: le banche d’affari inglese ed americane hanno, dalla crisi del 2008, sistematicamente traslato i rischi abnormi dei derivati sugli altri soggetti, ed è così singolare che la più potente ed importante banca del Continente europeo sia invece caduta vittima dei derivati, e si stratta di stranezza superabile facilmente esclusivamente con la circostanza che i rapporti di forza la hanno a ciò costretta. Conseguentemente, il secondo aspetto che può fornire da spunto di ordine generale ricostruttivo è che il capitale finanziario, nella sua essenza rovinosa e nella sua tendenza al disastro da un lato e nella sua natura abusiva dall’altro, opera a danno non solo più degli utenti-risparmiatori e utenti-imprese produttive prima e degli enti locali e Stato poi ma anche di propri esponenti di volta in volta penalizzati alla luce di una logica di potere economico in cui la tecnica economica e l’efficienza sono oramai privi di alcun valore e di alcuna rilevanza. Il capitale finanziario è dominante, senza ostacolo alcuno, ma registra al proprio interno una dialettica molto forte ed incisiva, al momento del tutto unilaterale come visto ma con tale unilateralità che può alla lunga rivelarsi fragile in quanto registra una formidabile disarmonia al proprio interno. Questa dialettica, finora trascurata, deve essere oggetto di attenta disamina e di vera e propria rielaborazione generale, se si vogliono porre le basi per porre il capitale finanziario sotto controllo, vigilanza ed addirittura sotto cautela.