Mario Draghi, con la consueta lucidità, ha osservato, in provocazione, più che in polemica, con populisti e/o sovranisti, che l’eccessivo livello del debito pubblico è una lesione arrecata alla sovranità nazionale, non effettiva per i limiti che tale eccesso di livello le arreca, ed in particolare non in grado di dotarsi di una politica autonoma indipendente.
Polemica e provocazione possono esser ribaltati, osservando come sia strano che proprio gli europeisti anti-sovranisti ricorrano alla sovranità nazionale per combattere politiche espansioniste degli anti-europeisti.
Ma provocazione e polemica corrono il rischio di impedire un approccio obiettivo.
Pertanto, si accantoni, almeno all’avvio, tale atteggiamento di retorica, sia da una parte sia dell’altra, e si parta dall’oggettività della problematica.
Certamente, l’osservazione di Draghi è ineccepibile: un debito estremamente elevato lede la politica economica statale.
Ma l’osservazione, ineccepibile, è anche parziale.
Il debito pubblico è dovuto ad una politica economica che lo ha rimesso nelle mani della finanza internazionale, visto che le aste del debito non hanno più la garanzia di copertura da parte di di Banca d’Italia e delle banche italiane, garanzia di copertura abolita con lo scellerato divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro, dovuto a Andreatta Ministro del Tesoro e Ciampi Governatore di Banca d’Italia (1981).
Le aste del debito pubblico sono in mano così alle grandi banche internazionali d’affari che dettano la linea economica al povero Stato italiano.
Conseguentemente, il debito pubblico è lievitato essenzialmente per interessi, visto che l’avanzo netto (, vale a dire al netto al netto degli interessi) è positivo.
Si può così raggiungere un risultato di grande rilievo che porta a ribaltare completamente il punto di partenza di Draghi: il problema è non che la sovranità nazionale non esiste perché il debito pubblico è alto, ma al contrario che il debito pubblico è alto perché la sovranità nazionale non esiste.
La finanza speculativa domina e tratta con gli Stati forti e impone le proprie assurde -assurde in quanto rovinose- leggi agli Stati deboli.
Il keynesismo, anche di sinistra, di fronte a tale discussione risponde con sussiego, ritenendo che lo Stato con alta spesa pubblica possa guidare l’economia, svilupparla mediante il sostegno della domanda effettiva e così controllare il debito, che è un problema relativo e non assoluto, vale a dire si pone solo in termini percentuali rispetto al PIL.
Il problema è che la spesa pubblica è diretta dalla finanza speculativa, che non è più circoscritta, come riteneva Keynes -che, detto per inciso, in modo per l’appunto circoscritto, la applicava anche per il proprio patrimonio personale e con grande successo-, ma è l’elemento motore dell’economia, che non è più produttiva.
Si è ribaltato lo schema keynesiano e lo Stato è succube del capitale finanziario che dirige così la politica economica.
Il nodo del debito pubblico è evidentemente centrale come ritenne giustamente Draghi e non come ritengono i keynesiani: però Draghi cade in profondo errore, creando una commistione di piani tra causa ed effetto.
Lo Stato deve riprendere il controllo del proprio debito anche in termini di efficienza ma guidando l’economia interna, in modo da controllare le imprese con la programmazione da un lsto e dall’altro ridimensionando il capitale finanziario.
Ciò non è affatto escluso dalla globalizzazione, in quanto le integrazioni sovranazionali sono sussistenti ma senza effettività in quanto non affrontano il duplice nodo, collegato indissolubilmente, tra programmazione economica pubblica vincolante e ridimensionamento del capitale finanziario.
Draghi, oramai collocato su una nuvola rosa di totale mancanza di realismo, evidenzia che l’Europa è uno strumento di ausilio della sovranità nazionale: ma si tratta di approccio del tutto irrealista, anzi surreale. In Europa quanto conclamato da Draghi non si verifica per alcun Paese tranne che per Germania e Francia, e quindi più che di parlare di integrazione sovra-nazionale, vale piuttosto la pena di ricorrere al concetto di imperialismo.
A differenza dello schema di Lenin, non è il capitale finanziario lo strumento dell’imperialismo, quale essenza del capitale industriale sovra-nazionale, ma si verifica l’esatto contrario: ed allora, l’unica alternativa è quella della sovranità popolare. Il concetto di sovranità è imprescindibile, quale essenza di una “suprema auctoritas, superiorem non recognescens”: ma può essere intesa sia come autonomia di una realtà sociale sia come strumento di sopraffazione. Occorre partire dalle sovranità come autonomia, e solo allora integrare i singoli Stati. L’internazionalismo come alternativa alla globalizzazione del capitale diventa una formula vuota ed illusoria fino a quando non risolve il problema della sovranità popolare.