Il titolo è, volutamente, anzi provocatoriamente, fuori dalle righe: richiama il famoso libro di Merleau-Ponty quando ruppe con il marxismo teorico e con il materialismo storico alla luce dell’esito oppressivo della rivoluzione russa, ma anche alla luce delle polemiche con Sartre. L’esito fu frettoloso ma il libro fu importante come segno del disagio in ordine alla divaricazione tra teoria e prassi nel marxismo.
Con il presente scritto, più modestamente ma con la pretesa di non perdere in approfondimento, si vuole dipanare il gioco delle nebbie intorno alla politica della domanda per mostrarne la vitalità inesauribile e la sua irriducibilità alla politica dell’offerta.
Quella di Savona è una politica della domanda fondata sul ruolo centrale del sostegno ai ceti deboli, ma in chiave non assistenziale, bensì collegata agli investimenti. Keynes si incentra sugli investimenti pubblici, “rectius” sul loro sviluppo, da cui dovrebbero derivare quelli privati.
Savona vuole coordinare quelli privati e pubblici.
Il senso, nonostante le apparenze, è quello stesso -come si mostrerà “infra”, mentre invece l’essenza del populismo è quella di interventi pubblici non coordinati tra di loro e nemmeno senza correzione degli investimenti privati, in un’ottica mista di assistenzialismo e di confusione.
Pertanto, tra il programma di Savoina e la realtà viva del Governo vi è un rapporto non armonico: il punto centrale è che il Governo ha adottato la linea del Savona. Sarà il Governo coerente al riguardo? Questa è una domanda politica seria: e lo scrivente nutre molti dubbi al riguardo, propendendo decisamente per la risposta negativa. Non serio è invece criticare il programma di Savona attribuendogli i vizi endemici del populismo e dei movimenti politici di Governo.
In definitiva, la politica della domanda non è in alcun modo intrisa di assistenzialismo bensì si concretizza nello spostamento dell’approccio all’economia dall’impresa (nella teoria del liberismo, il ruolo centrale è in realtà assegnato al mercato, ma si tratta di una vera e propria “fictio”, visto che la mano invisibile è veramente “invisibile”, nel senso che il meccanismo oggettivo ed impersonale di funzionamento è mancato) ad un’ottica di interesse pubblico complessivo.
Mentre Keynes non prese mai posizione espressa e sistematica sul grado effettivo di correzione dell’azione imprenditoriale da parte dell’attore pubblico, convivendo in lui una doppia anima, di liberale da un lato e di teorico dell’instabilità del capitalismo dall’altro, si realizzò poi la dicotomia tra keynesismo di destra e di keynesismo di sinistra. Ebbene, la politica della domanda, nella versione keynesiana di sinistra (per tutti Minsky), ruota intorno a tre punti, il ruolo centrale degli investimenti pubblici, l’aumento degli stipendi/salari e delle risorse dei ceti deboli, e il controllo della speculazione finanziaria. Ma, con la speculazione finanziaria diventata endemica e senza limite, occorre qualcosa di profondo, per l’esattezza qualcosa di molto più profondo. La correzione dell’azione imprenditoriale non deve derivare come effetto naturale di un’azione coordinata ma deve essere perseguita autonomamente: ma non solo, occorre anche che sia una correzione non marginale, bensì che crei un indirizzo complessivo dell’economia da parte dell’attore pubblico.
La politica dell’offerta non è compatibile con quella della domanda, perché la prima si basa su un ruolo secondario dell’intervento pubblico, che essenzialmente deve essere di supporto all’impresa. E’ la politica “supply-side” di Reagan e della Thatcher. La differenza è che adesso ci si è resi conto di interventi correttivi, ma sempre limitati.
Né si può ribattere che la politica dell’offerta può ben comprendere la politica industriale, in quanto si tratta di politica industriale di mero supporto all’industria privata ed in ogni caso priva di ogni inserimento nella logica della programmazione pubblica, che è lo spauracchio di chi crede nella centralità degli investimenti privati.
Ma più in generale, occorre fare chiarezza sulla politica della domanda: la versione di destra del keynesismo, se ha liberato l’intervento pubblico da ogni logica subalterna rispetto all’iniziativa privata, lo ha fatto strumentalmente rispetto alla politica dei redditi, in un’ottica tesa ad un controllo ferreo dei salari -non va dimenticato, il liberismo è veramente tale solo sul mercato del lavoro-. E’ ovvio che la differenza tra keynesismo di destra e politica dell’offerta è nitida e ferma, ma in entrambi vi è la forte necessità di controllare la mano pubblica e di porre ad essa un preciso limite, in modo che alla fine non è questa che controlla quella privata, ma si verifica l’esatto contrario.
L’unica politica della domanda è quella della versione del keynesismo di sinistra, rispetto a cui occorre una svolta nel senso di una maggiore incisività, per domare il capitale finanziario.
Qui sorge il grande interesse dello scrivente per la posizione di Savona: questi, sostenitore da sempre del keynesismo di destra, ha però compreso la necessità di domare il capitale finanziario, senza potersi limitare a quegli interventi correttivi limitati tipici dell’economia sociale di mercato, di cui pur si dichiara convinto sostenitore.
Ma non solo: Savona ha compreso l’antinomia tra capitale finanziario e controllo del debito pubblico: da keynesiano di destra, egli punta deciso ad una riduzione del debito pubblico, ma in un’ottica di riqualificazione e di rivendicazione fiera di autonomia della politica economica pubblica dal capitale finanziario, il che trova un ostacolo nella circostanza che le aste del debito pubblico sono in mano alle grandi banche d’affari internazionali.
In Savona lo scrivente non vuol limitarsi a vedere un esempio clamoroso di eterogenesi dei fini, vale a dire il progetto economico di un liberale che si caratterizza in senso di riformismo antiliberista, tenendo anche conto che lo stesso Savona rifiuterebbe presumibilmente tale lettura, anche se è una lettura che si ritiene proficua e che si svilupperà in un approfondito studio sullo scontro tra Guido Carli, maestro di Savona, e Riccardo Lombardi, faro dello scrivente, ai tempi del primo centro-sinistra, in quanto si vuol mostrare che l’unica, inevitabile, alternativa al liberismo è quello di un riformismo socialista gradualista. Lo stesso non è mai stato sostenuto coerentemente, nemmeno nel periodo d’oro della socialdemocrazia, in quanto le conquiste di questa furono non frutto di una sua forza, invece mancante nel momento in cui si concretizzò nella rinunzia al conflitto sociale, avviata da Bernstein e proseguita a Bad Godesberg, ma una forma di gentile concessione da parte del sistema, spaventato della minaccia sovietica.
Alcuni corollari: gli avversari della posizione di Savona ironizzano sula circostanza che questi non può che finire con il confidare negli impieghi delle banche in titoli pubblici: è un’ironia degna di miglior sorte, in quanto tali impieghi costituiscono un fenomeno normale nell’economia occidentale, come insegna l’esperienza dell’America, dove, dopo le ultime elezioni “mid-term”, con il bilancio americano imposto da Obama e non approvato dal Congresso, le banche d’affari americane. di fronte a tale situazione disastrosa, nulla hanno fatto per boicottare il debito pubblico, più alto di quello italiano, e del Giappone, il cui debito pubblico è anch’esso più alto di quello italiano, dove le banche sono, normativamente, obbligate ad acquistare titoli pubblici. Le banche sono essenziali per l’economia ed i populisti non se ne accorgono quando insistono, irresponsabilmente, nel penalizzarle. E non a caso, le banche italiane hanno cessato, con i populisti al Governo, di acquistare titoli pubblici italiane, ma trascurano che solo la politica della domanda può rilanciarle nell’attività creditizia a danno della speculazione.
Draghi con il QE, vale a dire con l’acquisto in massa di titoli pubblici (soprattutto dei Paesi deboli, da parte della BCE, ha favorito e realizzato la politica dell’offerta. Certamente, la realizzazione della politica della domanda spetta non a lui ma ai singoli Stati: peraltro, con il supporto al debito pubblico senza qualificazione e senza indirizzo degli investimenti (e con un controllo della speculazione finanziaria solo quale forma “tampone” di una situazione disastrosa all’epoca 2011-2012), ha fornito il presupposto essenziale per la politica dell’offerta, “rectius” per non sviluppare una coerente politica della domanda.