La tutela del lavoro è ai minimi livelli.
Gli strumenti di tutela sono ridotti al lumicino, la remunerazione è terribilmente bassa e le forme di elusione dei minimi diritti, anche economici, sono illimitate.
La tutela del lavoro richiede un cambio di passo con un ritorno alla situazione piano piano smantellata a partire dagli anni ’80, situazione non solo da ripristinare ma anche da aggiornare e da rinforzare come si vedrà “infra”: tale cambio di passo si deve basare sui seguenti elementi, il divieto di licenziamento ingiustificato, la salvaguardia del posto di lavoro, delle mansioni e dello stipendio, e la imperatività della qualificazione di subordinazione, da intendere in senso squisitamente oggettivo. E quindi nelle recenti imprese innovative, digitali e delocalizzate in cui l’impresa fissa tutte le condizioni del rapporto di lavoro, la subordinazione sarebbe scontata in quanto la facoltà del dipendente di rispondere alle singole chiamate è solo nominale, con il rifiuto che porterebbe allo scioglimento del rapporto.
Il divieto di licenziamento ingiustificato del licenziamento, proprio perché colpisce solo la mancanza di giustificazione, non è tale da produrre forme di “ingessamento” a carico di imprese in difficoltà.
Il diritto del lavoro è la negazione del liberismo e nel contempo è il fondamento di una tutela dell’impresa condizionata esclusivamente ad un suo ruolo produttivo ed alla creazione di valore aggiunto per la società intera: conseguentemente, la giustificazione del licenziamento, contrariamente a quanto sostenuto da recenti sentenze della Suprema Corte di Cassazione, sussiste solo se “extrema ratio” per salvaguardare la funzionalità produttiva dell’azienda, mentre una mera convenienza economica non è sufficiente.
Le forme di tutela del lavoro a cui si pensa invece da parte del mondo imprenditoriale e politico è tutt’altra cosa: si pensa, infatti, alla conferma dell’assetto liberista, sublimato addirittura dalla legittimazione dei pieni poteri dell’impresa e con forme di elasticità così estreme da annullare il lavoro quale fattore produttivo rendendolo mero strumento. La riscoperta di un “tertium “genus” tra lavoro dipendente e lavoro autonomo nient’altro è che la legittimazione dell’elusione. Forme coordinate e continuative e forme organiche di inserimento del lavoro autonomo nell’organizzazione aziendale in tanto restano autonome, secondo la configurazione qui fornita, solo in quanto il lavoratore abbia la possibilità effettiva di mantenere una propria specificità rispetto all’impresa, o per reddito in funzione di attività promozionale o per professionalità così spiccata che lo rende irriducibile all’organizzazione o per fattori similari. L’autonomia è tale solo se il lavoratore si trova in posizione di effettiva alterità organizzativa rispetto all’impresa.
Il dinamismo imprenditoriale, l’innovatività tecnologica e la frammentazione del lavoro conducono ad una totale dipendenza di fatto del lavoro dall’impresa riconosciuta e legittimata dall’ordinamento che, in un’ottica di piena salvaguardia dell’impresa stessa, rifiuta di fornire uno “status” a tale dipendenza: emblematico il caso della sentenza del Tribunale di Torino sui fattorini atipici, di cui si è disconosciuta la subordinazione.
Il lavoro dipendente è tale ma si tende a ridurre al minimo ed anzi ad annullare la sua configurazione soggettiva. L’unico soggetto pienamente riconosciuto è l’impresa.
Il lavoro non è più un’attività ma viene derubricato a un mero strumento dell’attività, l’unica ammessa nell’economia del capitale finanziario, quella d’impresa. Il lavoro diventa natura bruta alla mercé dell’attività, senza valore intrinseco, e l’impresa è l’unica vera attività di realizzazione sia produttiva sia umana. Paradossale è la piena realizzazione, pur deformata, del materialismo storico e della dialettica materialistica (Alfred Schmidt, “Il concetto di natura di Marx”, riedito quest’anno da Punto Rosso, con presentazione di Riccardo Bellofiore, che si pone in significativo confronto rispetto alla presentazione di quarantanove anni fa di Lucio Colletti, anch’essa contenuta nel volume), con la valorizzazione della progettualità umana che appartiene al piano dell’oggetto, solo che nel materialismo storico la progettualità era del lavoro e il rapporto con l’oggetto e con la natura è per l’appunto non conflittuale e tale da non stravolgerlo. Nel capitale finanziario, la progettualità è, esclusivamente, dell’impresa e l’oggetto diventa strumento priva di valore intrinseco.
E’ fuorviante il rinnovato richiamo di importanti settori del neo-marxismo all’alienazione, in quanto il lavoro non è separato dal suo oggetto ma viene schiacciato su di esso. I rapporti tra persone non diventano rapporti tra cose, ma più radicalmente sono rapporti tra un’unica attività e tutti gli altri derubricati ad strumenti: l’attività non è più produttiva e forma di realizzazione umana ma è solo dominio. Pertanto, non vi è un centralità dell’economia, quale unico fattore, come a sinistra si ritiene in modo critico, in quanto al contrario il capitale diventa solo dominio senza oggettività: l’oggettività del mercato e dello scambio evapora nel vuoto.
Se le cose stanno così, è improduttivo rimpiangere il diritto del lavoro, vitale intrinsecamente ma superato dalle dinamiche storiche.
Il punto vero è che l’impresa, nel momento in cui viene legittimata in modo incontrastato, non ha consistenza esiste in quanto il capitalismo tecnologico, “dematerializzato” e delocalizzato, è la manifestazione del capitale finanziario: vive di speculazione e così non tollera strutture organizzative stabili. L’impresa è in funzione del solo imprenditore. Senza impresa vi è il riconoscimento dell’attività dell’imprenditore, che alla fine non produce ricchezza se non distruggendone altra, non crea valore se non a mezzo di distruzione di altro valore, è uno speculatore, non è più imprenditore venendo privato nell’effettività dell’impresa.
L’impresa può essere ripristinata solo se il lavoro condiziona l’imprenditore. Ciò con un sindacato in grado di rappresentare tutti i lavori a livello nazionale.
Il lavoro viene così a collocarsi paradossalmente dalla parte dell’impresa per ripristinare l’imprenditore al posto dello speculatore.
Il diritto del lavoro tra diritto di tutela dei lavoro e diritto dell’emancipazione sociale deve assurgere al ruolo di puntellare il diritto dell’impresa, vale a dire di un riformismo garantistico e con i diritti non da abbandonare ma da mantenere quali forme di tutela di fattori produttivi che devono essere sì aggregati dall’impresa ma con piena salvaguardia del loro valore intrinseco, senza che vengano depressi e mortificati.
L’impresa è il soggetto attivo ma esclusivamente quale forma di oggettivazione non solo dell’imprenditore che è il pungolo, bensì anche degli altri fattori. E l’imprenditore può vedere riconosciuto il ruolo di pungolo esclusivamente se non deprime gli altri fattori e mantiene salva l’oggettivazione dell’impresa. Il soggetto è protagonista solo se esalta gli elementi oggettivi e non li travolge.
Il lavoro quale aggregato dall’impresa non annulla l’antagonismo sociale ma questi non deve distruggere l’impresa, bensì contrastare la sua perdita di oggettivazione e la sostituzione dell’imprenditore con lo speculatore ed in prospettiva arrivare ad una oggettivazione in cui non vi sia altro soggetto produttivo diverso dal lavoro.