Nell’81, con il debito pubblico che era il 60% del Pil., l’allora Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e l’allora Governatore di Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi disposero il divorzio di Banca d’Italia dal Tesoro, vale a dire il venir meno dell’obbligo di Banca d’Italia di sottoscrivere le aste del debito pubblico. Così Banca d’Italia e le banche –presso cui venivano poi collocati molti titoli delle aste- sarebbero state liberate di oneri impropri: ma non solo, lo Stato,privo della sicurezza di copertura, avrebbe ridotto il suo debito pubblico. Era l’attuazione di quel principio, espresso rozzamente da uno dei Ministri di Reagan ed anche da questi, “Bisogna affamare la bestia” per ridurne la bramosia. Fatto sta che trentasette anni dopo, il debito pubblico è diventato il 140% del Pil. E’ diminuita la spesa pubblica sociale, è aumentata a dismisura quella per interessi, saliti alle stesse visto il venir meno della copertura. Le aste pubbliche sono dominate dalle grandi banche d’affari internazionali che dominano anche il debito pubblico, propinando allo Stato derivati rovinosi, che lo Stato stesso non può rifiutare vista la posizione di sua totale dipendenza da queste. Con questo, non si vuol sottolineare che la questione del debito pubblico sia fittizia e priva di sostanza, come sostengono in molti nella sinistra radicale. Un debito pubblico altissimo quale quello italiano costituisce un problema delicatissimo per l’intera economia, posta al servizio del pagamento degli interessi del debito. Semplicemente si vuol collocare il problema nella ottica corretta. Recentemente Alesina e Giavazzi hanno impostato il problema nei consueti termini liberisti, arrivando, sulla base di un’analisi raffinata, ad un clamoroso travisamento globale. I due chiari aa. evidenziano che vi sono tre modi per risolvere il problema: il primo è quello di operare una sostanziosa inflazione per far perdere valore al debito, ma ciò comporta un aumento dei tassi che riporta alla stessa situazione. Il secondo è quello di non onorare il debito ma ciò è realizzabile solo nei confronti dei creditori interni, non certo nei confronti dei creditori esteri operatori istituzionali. Il terzo è quello di ridurre il debito pubblico riducendo la spesa e nel contempo aumentando il PIL. La ricetta è due autori è chiara: aumento della crescita e della produttività con spesa pubblica ridotta all’essenziale ed in ogni caso non idonea ad incidere sulla crescita. Nel contempo, l’inflazione come alternativa al debito pubblico indica chiaramente che la redistribuzione del reddito mediante spesa sociale non va a carico delle classi abbiente ma direttamente od indirettamente a carico dello Stato, facendo diventare la redistribuzione del tutto effimera ed apparente. Il che significa che lo Stato non ha le leve della politica economica e sociale. Infine, la necessità di onorare i propri debiti non deve trascurare il ruolo decisivo e negativo dei creditori istituzionali nei confronti della nascita e della gestione dello stesso debito. La posizione di Alesina e Giavazzi riprende la nota polemica liberista contro la spesa pubblica, collocandola peraltro in contesto in cui essa si rivela vuota e periva di senso. Ciò chiarito,si può ben comprendere la portata del divorzio. Lo stesso ha voluto rendere fisso ed istituzionale il venir meno di un ruolo attivo dello Stato nella gestione del debito pubblica e nella politica economica a favore del mercato senza rendersi conto che ciò nient’altro voleva dire il cedimento di fronte alla grande banca d’affari internazionale. Si è rinunziato alla spesa sociale ed alla politica economica pubblica in un’ottica di mercato inesistente. In quel periodo Guido Carli, appena lasciata la Presidenza di Confindustria, mentre stava preparando la sua discesa in politica, evidenziava la necessità di dare piena libertà di movimento di capitale, per consentire la risparmiatore l’ottimale realizzazione dei propri mezzi finanziari . Ciò senza rendersi conto che i singoli risparmiatori sono dominati dal capitale finanziario e dagli intermediari che lo guidano a proprio piacimento. In tale errore è incorso il divorzio. Sottostante al divorzio vi è anche il clamoroso errore del mondo bancario di rendersi indipendente dal proprio Stato senza immaginare che con uno Stato debole anche il sistema bancario sarebbe diventato debole. Il capitale finanziario domina lo Stato e la politica e quindi riesce a disfarsi di ogni politica economica: il settore creditizio invece va in crisi parallela allo Stato. Necessita di una politica economica. Il settore creditizio non si può disinteressare della spesa sociale. Il settore creditizio non può abbracciare la globalizzazione in quanto la sua fortuna è legata indissolubilmente al territorio ed al tessuto produttivo nazionale. Non può supplire a carenze di questo con una vocazione internazionale, la quale può riguardare, al limite, solo la ristretta parte più avanzata di detto settore. In definitiva, il divorzio dell’81 si basò su una sciagurata valutazione di politica economica: a ciò è da aggiungere che lo stesso si basò su una parimenti clamorosa svista del settore creditizio –con il suo vertice-, che scelse di diventare agente della nascente globalizzazione e del nascente capitale finanziario, invece ad esso entrambi letali.