La politica della domanda rappresenta una forma di intervento pubblico nell’economia tale da immettere mezzi finanziari pubblici nell’economia in modo da sostenere i ceti deboli e dare loro i mezzi per alimentare la domanda e così anche, indirettamente ma inesorabilmente, la produzione delle imprese. L’intervento pubblico di sostegno all’economica è il punto di partenza imprescindibile della politica della domanda.
Ma quello che deve essere chiarito, in modo inequivocabile, per evitare dubbi ed incertezze alimentati ad arte, è che non vale il reciproco: non ogni sostegno pubblico all’economia rientra nella politica della domanda.
Ed assolutamente non riconducibile a la politica della domanda è la politica dell’offerta, vale a dire il sostegno alle imprese senza passare per l’aiuto ai ceti deboli.
“In limine”, per inciso, ciò dimostra inesorabilmente la fallacia dell’affermazione di chiara marca liberista, fatta propria da settori, anche importanti, della sinistra radicale, che l’intervento pubblico nell’economia è la negazione dello stesso liberismo. Il sostegno pubblico all’economia che va diretto alle imprese senza passare per la domanda è funzionalizzato a tutelare e salvaguardare un assetto liberista nel mercato del lavoro. Il liberismo non è affatto a favore della concorrenza “tout court” ma solo a favore della concorrenza a danno del lavoro ed a danno di ogni logica sociale: non è a favore della concorrenza “tout court”, in quanto evidenzia che gli oligopoli ed addirittura i monopoli nascono dalla concorrenza stessa, con la conseguenza indefettibile che i monopoli ed oligopoli stessi vengono combattuti solo se eccessivi, il che dimostra non solò la mancanza di logica teorica e sistematica ma anche la discrezionalità e la parzialità negli interventi, spesso dettati da esigenze di comodo (come in Italia con Berlusconi ma anche con altri).
Chiuso l’inciso, che le imprese, aumentando gli investimenti, forniscono lavoro, sembra tale da rientrare in situazione analoga alla politica della domanda. E’ da replicare che quello che aumenta con la politica dell’offerta è rappresentato non necessariamente dagli investimenti ma dai ricavi. Le imprese possono infatti effettuare, con i maggiori ricavi, operazioni finanziarie e speculative senza in nessun modo far beneficiare ceti deboli. E’ che ciò avviene con il capitale finanziario.
Il taglio del tasse, anche a favore dei ceti deboli (come il taglio dei famosi 80 euro di Renzi) non costituisce una forma di politica della domanda in quanto finanziato con altre voci sempre a carico dei ceti deboli: è una mera partita di giro. Inoltre è meramente strumentale ad un taglio impositivo a favore dei ceti forti.
Il “Quantitative easing”, vale a dire l’acquisto in massa di titoli pubblici degli Stati deboli da parte della BCE, rientra armonicamente in tale ottica e costituisce un forma di politica dell’offerta in quanto il sostegno dei conti pubblici ha favorito non la spesa sociale ma il sostegno del debito pubblico orientato verso l’offerta in quanto condizionato dalle grandi banche d’affari internazionali che gestiscono le aste dei titoli pubblici. Il “Quantitative easing” modera solo gli eccessi speculativi di tali grandi banche d’affari internazionali a danno degli Stati deboli.
La politica della domanda è un qualcosa di veramente complesso: come notò Minsky, grande economista keynesiano di sinistra, la politica della domanda, per essere veramente tale, e per non consentire mascheramenti a favore della politica dell’offerta, si deve presentare nella versione più di sinistra e così basarsi su tre elementi sostanziali fondamentali: 1) il ruolo centrale degli investimenti pubblici con una grande componente rappresentata dalla spesa sociale, 2) la piena occupazione, e 3) il controllo della finanza per impedirne deviazioni speculative. E’ una versione che, pur derivando strettamente da quella originaria keynesiana, presenta rispetto ad essa dei profili di originalità del tutto irriducibili. E’ ovvio che detta versione introduce un aspetto qualitativo nella visione quantitativa keynesiana: in questa, conta che aumentino i consumi, il che può derivare solo da un aumento di reddito dei ceti deboli, che costituiscono la maggioranza della popolazione. Nessuna correzione della politica degli investimenti delle imprese private e nemmeno un controllo della speculazione se non di ordine macro-economico e per l’appunto quantitativo.
La versione di sinistra di Minsky introduce un aspetto qualitativo per cui la massima efficienza non si realizza solo se l’aumento degli investimenti produce vantaggi sociali ma esclusivamente se si corregge la politica degli investimenti, alla luce dell’incompatibilità totale tra politica sociale e speculazione finanziaria. Questa, alla lunga, deprime anche gli investimenti produttivi e pertanto non consente un collegamento tra profitti privati e benefici sociali. Ogni versione moderata della politica della domanda che sfoci nella politica dell’offerta, o comunque, pur senza sfociarvi, ne sia contigua, con la strategia dei due tempi, consistente nel favorire prima i profitti che poi apportino benefici sociali, è pertanto del tutto inconsistente prima ancora che manifestamente infondata, in quanto i profitti, senza controlli –non più solo quantitativi ma soprattutto qualitativi- si dirigono verso la speculazione.
La versione di sinistra di Minsky comporta la funzionalizzazione sociale dell’iniziativa economico privata, vale a dire in virtù di un cambio di approccio a 180 gradi, non vi più è libertà di fare profitto con la speranza di destinazioni produttive e quindi anche sociali, ma libertà di profitto condizionata indefettibilmente, in virtù di un vincolo funzionale interno, all’utilità sociale.
E qui vi è il punto delicato: la politica della domanda keynesiana, nella versione tradizionale è ora del tutto inutilizzabile: essa è venuta meno in quanto il capitale finanziario ha distrutto lo Stato sostituendolo con una globalizzazione anarchica, e quindi ha levato il terreno sotto i piedi di qualsivoglia politica economica pubblica, ha distrutto la Società, sembrando i blocchi sociali ed ha distrutto l’economia, eliminando il calcolo economico e sostituendolo con speculazioni che si alimentano da sole, protette in virtù di sopraffazioni ed abusi. La politica economica, nella versione tradizionale keynesiana, è stata facile da smontare in quanto non antagonistica rispetto alla logica del capitale. Ed il lavoro, visto solo come consumo vale a dire come protagonista della domanda è stato privato, di ruolo autonomo.
La versione di sinistra di Minsky è invece utilizzabile in quanto ha un profondo nucleo antagonistico rispetto alla logica del capitale, anche se in un’ottica solo genuinamente e realisticamente riformista.
Essa va integrata con la teoria marxista del capitale finanziario di Rudolf Hilferding (quale in via di aggiornamento da parte di Emiliano Brancaccio e di chi scrive, entrambi in via autonoma l’uno dall’altro).
Entrambe vanno corrette su un punto fondamentale: una pianificazione democratica (che Hilferding vide quale prodromica alla transizione al socialismo) è impossibile nel capitalismo, la cui natura anarchica è ineliminabile. Una politica economica rigorosa, quale proposta da Minsky, trova in ciò il punto invalicabile.
Se il vero elemento indispensabile per minacciare prima e scardinare poi il capitalismo è rappresentato dalla pianificazione, è ovvio che la stessa va elaborata in termini compiuti in un’ottica sociale, e quindi deve essere resa compatibile con il controllo operaio prima e con l’autogestione poi, in un’ottica politica, e quindi deve essere resa compatibile con la democrazia rappresentativa costituzionale, ed in un’ottica economica, e quindi la legge del valore non può essere eliminata in un’ottica socialista (come compreso dal solo Galvano della Volpe, sulle cui orme si sta collocando chi scrive), dovendo semplicemente essere svincolata dall’accumulazione capitalistica che pur la ha generata.
Per concludere sul riformismo di sinistra liberista di Renzi, e che sia riformismo e che sia di sinistra sembrano allo scrivente due azzardi, la “flat tax”, con l’aliquota unica e la conseguente eliminazione della progressività, rientra pacificamente, alla luce di quanto detto prima, nella politica dell’offerta. L’argomento secondo cui essa incentiva l’offerta e quindi aumenta la torta e la distribuzione complessiva si scontra con quanto detto sopra ed in particolare con la circostanza che la politica dell’offerta non favorisce né gli investimenti né tanto meno le loro destinazioni sociali.
Angelo Panebianco che lamenta come i populismi, in via pretesa eredi spuri dell’anticapitalismo di sinistra, siano la negazione del liberalismo e dell’efficienza economica, dimentica due cose, oltre ad essere contraddistinto da pressapochismo dell’enucleazione della natura anticapitalistica del populismo: in primo luogo la negazione del liberalismo e dell’efficienza economica viene dall’interno del capitalistico e non dall’esterno; in secondo luogo, la libertà economica è del tutto incompatibile con ogni altra libertà (Benedetto Croce riteneva, in polemica con Luigi Einaudi, che il liberalismo può essere compatibile con il liberismo, mentre, in senso radicalmente più estremo, al contrario il liberalismo è impossibile se non si elimina il liberismo, vale a dire se non diventa socialista).