Ho molto apprezzato il discorso del sindaco di Siderno, Fuda, alla festa del 1° maggio, nella parte in cui ha parlato di “imprenditore sociale”. Questa figura ci riporta all’art. 41 della Costituzione che recita: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.” Chi ha scritto questa norma aveva bene in mente lo Stato sociale e lo ha incastonato nella Costituzione, conservando il diritto alla proprietà privata, alla libertà di iniziativa economica privata, ma intervenendo nel settore dei rapporti economici. I padri Costituenti furono lungimiranti nel coordinamento dell’attività economica e il suo indirizzo verso il raggiungimento del benessere comune. Per questo non si può ragionare solo in termini di sterile profitto, perché se un’azienda funziona bene è perché spesso all’interno vi è anche la fedeltà e l’attività di chi presta la propria professionalità e questa deve essere riconosciuta tramite un salario congruo, sicurezza e tutela della salute e del posto di lavoro. Il lavoratore spende 8 ore della sua giornata, la propria forza e, in alcuni casi, anche le idee e il suo “savoir fare”. Per questo ha il diritto di garantire a sé e alla sua famiglia una vita dignitosa.
Oggi, purtroppo, i mercati internazionali sono predominanti, si è quasi totalmente distrutta la piccola e media impresa. Quando una persona riesce a entrare nel “mondo del lavoro” non viene considerata per la qualità produttiva, ma per la velocità di produrre e generare profitto al suo datore di lavoro. Non a caso, ora viene usato il termine infelice “mercato del lavoro”, dove ciascuno diventa sostituibile, proprio per indicare che i lavoratori possono essere sostituiti come un pezzo meccanico qualsiasi di un ingranaggio. La “chicca” è il lavoro flessibile coronato dai voucher! Con il Jobs act, per agevolare le assunzioni, è stato proposto il contratto a tutele crescenti e gli sgravi contributivi per il datore di lavoro. Ma niente, non si muove una foglia. La precarietà e la disoccupazione i convitati di pietra del primo maggio!
In Italia la disoccupazione generale è stimata al 14%, quella giovanile al 42% e al sud arriva al 60%. Ogni giorno un’azienda chiude o minaccia di chiudere per abbassare le garanzie sul lavoro. Alcune chiudono e aprono all’estero. Molte effettuano finte chiusure. Infatti, in diverse città, il lavoro c’è ma è molto nascosto in magazzini seminterrati affollatissimi di “lavoratori” e le condizioni sono da Bangladesh! Si può parlare di nuova schiavitù? Direi proprio di sì.
Qualcuno ricorderà la gag di Massimo Troisi sul lavoro? Nella scenetta, Troisi lamenta che a Napoli non si trova lavoro che non sia affiancato da un’altra parola. Lavoro nero, lavoro a cottimo e lavoro minorile. Dalla legge Biagi in avanti se ne sono aggiunte altre: lavoro a progetto, a partita iva, a tempo parziale, intermittente, ripartito, co.co.co. e molti altri che il jobs act non è riuscito a cancellare, anzi, ha cancellato l’art. 18, una norma che garantiva diritti e umane condizioni di lavoro. Invece, ha prevalso la “Gig Economy” (o gigonomics=lavoretto), un termine anglofono e laccato per definire un modello economico sempre più diffuso dove i lavoratori sono tutti in proprio, non esistono più prestazioni lavorative continuative, ma si lavora “on demand”, cioè solo quando c’è richiesta per i propri servizi, prodotti o competenze.
Qual è il problema? E’ veramente economico? No, il problema è la competitività! Oggi dobbiamo essere “competitivi”, perché ce lo chiedono i mercati. Le imprese artigianali, con l’originalità delle idee, non ci sono più perché per essere “competitivi” occorre produrre in serie e a basso costo. Così siamo vestiti tutti uguali, “griffati”, ma uguali, come i balilla! Anche il cibo deve essere “globale”, non secondo le locali esigenze, ma secondo le esigenze del mercato e, però, non tutti nel mondo hanno assicurato un pasto al giorno.
Alcune vie delle grandi città non sono più illuminate, anche i negozi chiudono. Nelle vie più “battute” del centro ci sono ovunque le stesse insegne che si ripetono, tanto al Nord come nel resto d’Italia e del mondo: Zara, Intimissimi, McDonald, per citarne alcune, e poi le grandi firme. Tutti in serie! Costo di produzione 90 centesimi, prezzo di vendita 40 euro. E’ un esempio, ma è così per qualsiasi prodotto. Quantità, non qualità! Ma la quantità rischia di travolgerci perché senza reddito non si consuma. Senza reddito non ci si avventura a costruire una famiglia. Le nascite calano, arrivano i migranti, l’esercito industriale di riserva, per usare un’espressione di Marx, dove l’obiettivo è sostituire i lavoratori autoctoni con gli immigrati, i lavoratori specializzati con lavoratori occasionali, sostituendo la manodopera che ha diritti sociali e una coscienza di classe oppositiva (scioperi, ecc.) con una nuova manodopera che non ha né gli uni né l’altra, e che è disposta a tutto pur di sopravvivere. Questa è globalizzazione dello sfruttamento!
Perciò, in attesa della completa robotizzazione, qualche lavoro si trova. Senza garanzie, limiti di orario e sottopagato. Nelle grandi catene di distribuzione si lavora anche più di 50 ore a settimana, senza straordinari, né festivi. A Castel San Giovanni (Piacenza), la multinazionale Amazon assume parecchi giovani, che lavorano fino a 10 ore al giorno. Lo smistamento delle merci per la consegna è cronometrato e i lavoratori non possono andare in bagno, fermarsi per un bicchiere d’acqua, o scambiare due parole con un collega mentre percorrono freneticamente i corridoi del grande deposito. Pare che i bagni di Amazon siano pulitissimi!
In diverse occasioni, i nostri politici hanno incitato gli imprenditori stranieri a investire in Italia perché il costo del lavoro è conveniente. Non è un vanto, c’è da vergognarsi! Dicono che c’è crisi, che non ci sono soldi, mentre il gap della diseguaglianza cresce ogni giorno. Il 10% si arricchisce sempre di più, mentre l’altro 90% si impoverisce.
I 20 miliardi di euro spesi dal governo Renzi in bonus e mancette per la campagna elettorale, tradotti in investimenti pubblici avrebbero portato alcune migliaia di posti di lavoro a tempo indeterminato. L’Italia è stata la terza potenza del mondo in diversi settori, la prima nel campo alimentare, della moda e della meccanica. Oggi siamo agli ultimi posti della classifica. Eppure le soluzioni ci sono: avremmo potuto vivere di rendita per i beni culturali che possediamo, le bellezze naturali e per i nostri prodotti caratteristici. Avremmo potuto creare nuovi posti di lavoro con la riclassificazione ecologica degli edifici pubblici, la manutenzione del territorio urbano e idrogeologico, utilizzare le idee dei nostri laureati per progetti innovativi, invece li mandiamo all’estero.
Andando avanti così, il 1° maggio potremo festeggiare la precarietà.