La Corte Costituzionale, sentendo le sirene da tempo in azione, ha dichiarato l’inammissibilità del “referendum” abrogativo delle norme del “job act” (e della legge Fornero) nella parti in cui si abolisce il divieto di cui all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori di licenziamenti ingiustificati con sanzione della reintegra, e nel contempo si aumenta lo spazio di operatività dell’art. 18 dalle aziende con più di quindici dipendenti a quelle con più di cinque. In attesa delle motivazioni, per comprendere l’abnorme decisione, non si può, per il momento, che analizzare le ragioni addotte dalle “sirene”. Si sostiene che, con il “referendum”, investendo anche altre norme e parti di norme (legge Fornero, stesso art. 18), si verrebbe ad estendere la tutela reale (vale a dire con la sanzione della reintegra) del posto di lavoro e l’inammissibilità del licenziamento ingiustificato anche ad aziende al di sotto dei quindici dipendenti: sarebbe così, nel concreto, un “referendum” propositivo, il che è vietato dall’art. 75 della Costituzione. La tesi è del tutto inconsistente: è infatti da confermare che il “referendum” è abrogativo in quanto propone non una nuova norma ma l’eliminazione di parti del “Job Act” e dell’art. 18, ed infatti l’art. 27 l. n. 352/70 –e successive modifiche ed integrazioni-, in attuazione dell’art. 75 della Costituzione, prevede che il “referendum” possa riguardare anche singoli articoli o parti di articoli o commi. Che l’abrogazione parziale porti un’estensione della portata della norma è ben altro discorso, che non ha rilievo giuridico, in quanto il “referendum” ha la funzione di abrogare una norma, che può essere a sua volta estensiva o restrittiva. La natura abrogativa consiste nell’abolire una norma od anche una sua parte e non nel restringere la portata di una disposizione. Ogni norma si traduce in una o più diposizioni, ma la portata della disposizione, vale a dire la sostanza del suo impatto sulla realtà, può essere sia positiva sia negativa, vale a dire relativa sia all’introduzione di diritti, doveri e poteri, sia all’apposizione di limiti ad essi, sia addirittura alla loro eliminazione. Si abroga, con il “referendum”, una norma che può essere a propria volta di pura eliminazione di realtà oggettive e di situazioni soggettive. Con l’abrogazione referendaria si estende la portata di tali situazioni oggettive e facoltà soggettive, anche sfavorevoli come obblighi e doveri ed divieti, ed addirittura le si può introdurre “ex novo”, e così non ha senso nemmeno prospettare la suggestione che con il “referendum” non si possono introdurre od ampliare obblighi privati e interventi o carichi pubblici. Una norma può benissimo comportare esclusivamente una limitazione alla portata di un’altra norma, od addirittura la sua drastica eliminazione. Ai sensi dell’art. 27 della l. n. 352/70, lo stesso discorso vale per parti di norme, ed è un’identità perfetta visto che una norma può contenere più disposizioni. Ai sensi dell’art. 75, il “referendum” può prevedere benissimo l’abrogazione di parti di norme limitative di altra norma (od anche di altre norme): la norma di cui vengono eliminate parti –“rectius”, norme- limitative viene come norma limitata e privata di sue parti e vede estesa solo la sua portata, il che come detto è del tutto influente. Non si può dire che la norma, con la abrogazione referendaria, viene estesa in quanto siffatta affermazione verrebbe ad effettuare un’indebita commistione di piani tra aspetto giuridico ed aspetto economico-sociale. I limiti di cui all’art. 75 attengono esclusivamente al primo piano. E’ da ribadire che la situazione è affatto identica all’abrogazione di una norma che direttamente –vale a dire senza incidere su altre norme- vieta alcune realtà e/o situazioni. Anche qui si creano realtà e si rendono ammissibili situazioni prima non possibili. In altri termini, l’art. 75 non pone limiti di compatibilità con i diritti, doveri e poteri regolamentati, su cui il “referendum” ha lo stesso ambito di ammissibilità delle leggi, ma li pone solo in termini di divieto di introdurre nuove norme. E’ evidentemente pacifico che tale argomento è palesemente inconsistente: ed infatti, quando era in vigore l’art. 18 limitato alle aziende con più di quindici dipendenti, e fu proposto un “referendum” abrogativo del limite quantitativo dei dipendenti per aziende, nessun dubbio vi fu sull’ammissibilità, e lo stesso fu regolarmente tenuto. Conseguentemente, si è individuato altro argomento, consistente nella circostanza –invero, solo pretesa- che un “referendum” manipolativo, nel senso che elimina alcune parti di norme estendendo la portata –come detto solo sostanziale, e non normativa- sarebbe inammissibile in caso di eccesso di manipolazione. Ma tale limite da non violare non esiste nell’art. 75 e non è in alcun modo ricavabile, né da esso, né “aliunde”. La manipolazione è vietata solo quando in virtù di essa si crea una normativa organica alternativa (per tutte, Corte Cost., sentenza n. 37/2000), vale a dire si crea in modo indiretto, con utilizzi surrettizi di più spezzoni, una nuova norma, nuova norma prima non sussistente, unica fattispecie vietata dall’art. 75: ed è bene ribadire che ciò non coincide con l’abolizione di una vecchia norma con estensione della sua portata, che è come detto del tutto irrilevante. Il caso della creazione surrettizia di una nuova norma certamente non si verifica nell’abolizione solo di uno o più limiti ad un divieto che deriva dall’abolizione della norma che ha a monte abolito il divieto stesso. Il “referendum” punta a riportare in vita il divieto di licenziamenti ingiustificati con la sanzione dalla reintegra e di conseguenza con la tutela reale del posto di lavoro. Tale risultato si ottiene eliminando la norma che ha eliminato il divieto: l’eliminazione dei vincoli al divieti non ha nulla di organico ma serve a completare il divieto. Proprio perché la così detta manipolazione è del tutto secondaria ed accessoria rispetto all’obiettivo proprio del “referendum”, l’eliminazione della norma che elimina il divieto con ripristino del divieto stesso, non si determina nulla di organico, in quanto la disciplina organica è già nel divieto, completato in modo per l’appunto secondario ed accessorio. La visione organica è nel divieto di licenziamenti: che lo stesso valga in aziende con più di quindici o con più di cinque dipendenti è del tutto marginale. Con questa tesi, si vuole in definitiva ottenere qualcosa di semplicemente surreale: non potendo ottenere di impedire espressamente il rispristino del divieto, semplicemente fuori dal mondo, si vuole ottenere in modo surrettizio detto risultato, impedendo di ampliare il divieto, ed invece l’ampliamento è del tutto ammissibile, in quanto realizzato mediante l’abrogazione anche di parti di norme che limitavano il divieto, abrogazione quest’ultima del tutto ammissibile come visto esaminando la prima tesi. Anche la seconda tesi è tutto inconsistente: o meglio essendo intrinsecamente inammissibile come la prima, il loro utilizzo combinato è del pari inammissibile, così come è vero che due ubriachi non possono pretendere di sorreggersi l’un l’altro, in quanto invece hanno necessità di trovare un lampione. Sia ben chiaro: qui il lampione manca. Purtroppo la Corte ha accolto le inconsistenti tesi avversarie ed ha impedito lo svolgimento del “referendum”: ciò perché ha sentito le “sirene”. Al contrario di quelle di Ulisse, quelle ora in azione non hanno nulla di affascinante: si è fatto pressione sulla Corte, prospettando due scenari. Da un lato, si è evocato il rischio che le aziende, spaventate dal “referendum”, bloccassero le assunzioni, dimenticando che le assunzioni sono bloccate da tempo e che il “Job act”, dopo un breve periodo di utilizzo di vantaggi fiscali, ha fatto, pacificamente, “flop”. Dall’altro, si è evidenziato (e sembra che sia stato Renzi a proporre tale scenario, ebbene Renzi è inconsistente come statista, ma è dall’astuzia diabolica) che, per scongiurare il “referendum” (ove ammesso), ritardandolo di un anno, si sarebbe dovuti andare alle elezioni anticipate, spauracchio di molti ed anche (di per sé fondatamente) di Mattarella. Le imprese, toccate nei loto privilegi, ed il potere politico di sistema che, smentendo sé stesso e la sua ricerca di un impianto costituzionale ed elettorale che il giorno delle elezioni fosse in grado di indicare il vincitore, sta andando vero le larghe intese, più o meno mascherate, ed addirittura palesi, impediscono al popolo sovrano di intervenire su una materia fondamentale quale quella del lavoro. E’ un attacco alla democrazia: è una forma di eversione costituzionale non sanguinaria ma dolce, il che è già un progresso, sia ben chiaro. Quello che è certo è che la democrazia, anche formale, viene smantellata. Perché la Corte ha accettato tale abominio? La giustificazione nobile è che la Corte è una forma di Autorità Giudiziaria “sui generis”, vale a dire che giudica non solo secondo diritti e norme (qui della Costituzione), ma anche secondo opportunità, vale a dire in modo da salvaguardare gli equilibri politici. Il che è certamente inevitabile ma purché l’opportunità non sostituisca il diritto bensì lo affianchi. Tale nuovo scenario, vale a dire che la Corte smetta di essere il vero ed unico garante della Costituzione addirittura assurgendo al ruolo di agevolatore di chi la affossa, richiede un approfondimento sulla giustizia costituzionale, non da indebolire ma da rafforzare ed emendare di siffatta colossale tara rappresentata dal peso esorbitante della valutazione di opportunità. Su ciò si ritornerà in altra sede: al momento, occorre prendere atto con sgomento della decisione e trovare immediatamente altre forme di lotta per la tutela del lavoro. Occorre anche ricordare che “l’ottimo è il nemico del bene”: se ci fosse si accontentati di ripristinare l’art. 18 nella sua versione originaria senza l’estensione, pur del tutto legittima, si sarebbe eliminato l’alibi. E quest’alibi rappresentato da valutazioni esorbitanti di opportunità poteva essere ben noto. Ma oramai, è inutile piangere sul latte versato. Ora occorre prepararsi ad una vera e propria grande offensiva, sul piano della Costituzione: sì, non più solo difensiva ma offensiva, in termini politici, sociali e giuridici; e nella parte sia dell’assetto dello Stato sia dei rapporti economici e sociali, a partire dal lavoro e dal risparmio.
(11 gennaio 2017)