Le riforme necessarie per eliminare le storture prodotte dall’attuale
finanziarizzazione del capitalismo e consentire il suo controllo democratico
passano necessariamente per la riforma dei rapporti valutari, finanziari e
mercantili tra la UE e il suo esterno.
1)in primo luogo, infatti, occorre recuperare il controllo centralizzato del
cambio dell’euro, il che postula la introduzione ai confini della UE di
controlli valutari anti-speculazione e anti-delocalizzazione del tipo di quelli
vigenti più o meno in tutti i paesi preunitari fino agli anni ’80. Ciò implica il
ripudio della deregulation e della globalizzazione più estreme, quali sono
state intese e sostenute dal pensiero pseudoliberista dominante ormai da
decenni, il così detto Pensiero Unico in economia. Solo controlli di questo genere
possono consentire alle autorità centrali comunitarie di fissare centralmente il
cambio dell’euro in armonia con l’andamento dei prezzi interni e con le scelte
centrali. In primo luogo, svalutando progressivamente l’euro in misura pari
all’eventuale differenziale di inflazione che residuasse nonostante l’uso del
calmiere all’ingrosso e dell’anti-trust per contenere l’inflazione indotta dall’uso di
politiche espansive della economia interna (v. n. 3).
2)Va infatti saputo, da un lato, che un euro “forte” con bassa inflazione ha
effetti depressivi sulla competitività del made in UE del tutto identici a quelli
determinati da una più alta inflazione interna a cambio costante, e, dall’altro,
che non esiste la inflazione “da domanda”, come invece sostiene il Pensiero
Unico, in quanto ogni inflazione “da domanda” in realtà è solo una inflazione
“da trust”. Quando sale la domanda, infatti, perché i prezzi possano salire
occorre che l’offerta non aumenti altrettanto a causa di uno “strozzo” che, a
sua volta, è involontario, quando dipende dalla piena occupazione dei fattori della
produzione (mai vista) o dal blocco delle importazioni di materie prime e
semilavorati necessari alla produzione (embargo e simili), o è volontario,
quando (sempre) i trust sottodimensionano volontariamente l’offerta a fine
di extraprofitto “da oligopolio”, trasferendo sui listini all’ingrosso la
tensione esercitata dalla quota di domanda così lasciata scientificamente
insoddisfatta. Nella “stagflation” (inflazione a una cifra che accompagna una
stagnazione/ recessione), questa volontarietà si manifesta in modo ancor più
caricaturale: se quando la domanda sale, i trust per fale salire i prezzi quanto
voluto commercializzano un’offerta, poniamo, del 20% più bassa rispetto a
quanto aumenta la domanda, quando la domanda cala, per fale salire i prezzi
non possono contrarre l’offerta del 20% come dovrebbero fare per mantenere il
massimo profitto percentuale nelle nuove mutate condizioni di domanda più
bassa, ma devono comprimere l’offerta più ancora di quanto non sia calata
la domanda. Solo così la offerta sarà inferiore alla domanda e il prezzo potrà
essere più alto di prima. I trust in tal modo rinunciano nell’immediato a una parte
dei loro extraprofitti da oligopolio, ma mettono sotto scacco maestranze e
imprese fuori dal loro “club” grazie alla sottostima ufficiale ISTAT, che erode
nascostamente retribuzioni, pensioni e welfare “reali”, e grazie agli interventi
governativi deflattivi adottati nella “ignoranza” della volontarietà della inflazione,
che, essendo recessivi, creano un contesto di disoccupazione e precarizzazione
che fa indietreggiare le maestranze organizzate e le loro conquiste, costringendo
nel contempo alla decozione progressiva le imprese concorrenti, che potranno
acquistare a basso prezzo, se gradite, o lasciare morire, altrimenti, aumentando
in ogni caso il loro grado di concentrazione oligopolistica e disegnando nel tempo
la distribuzione sociale del reddito loro più gradita.
3)Preso atto che in presenza di “accordi di cartello” ogni espansione
promossa “pompando” la domanda interna è necessariamente anche
inflattiva (non solo inflattiva), si pone il problema del contenimento della
inflazione e del mantenimento della competitività del made in UE al salire dei
prezzi interni.
Il primo obiettivo non si consegue affatto comprimendo la domanda interna
(così detta “deflazione”), come viceversa consigliato dal Pensiero Unico, e la
ragione è semplicissima, poiche comprimendo la domanda interna si
dovrebbe rinunciare a ogni espansione! L’inflazione “da trust”, essendo
“volontaria”, dovrebbe essere ovvio che la si può contrastare solo con il
calmiere all’ingrosso e l’anti-trust, mentre non è ovvio se si antepongono gli
interessi dei trust a quelli di tutta la società civile.
Il secondo obiettivo, invece, si consegue semplicemente svalutando
periodicamente il cambio dell’euro in misura ogni volta pari all’eventuale
differenziale di inflazione che residua nonostante calmiere e anti-trust: se
negli USA c’è, poniamo, una inflazione del 2%, e nella UE del 5%, basta
svalutare l’euro del 3% sul dollaro per mantenere inalterata la competitività
relativa delle reciproche imprese! Per avere un euro “vero”, occorre dunque
recuperare il controllo centralizzato del cambio e non lasciare che esso sia
determinato dai movimenti speculativi di capitale e dalle delocalizzazioni.
Per farlo, occorre rinunciare alla demenziale deregulation borsistico-valutaria e
alla globalizzazione più sfrenata ed introdurre ai confini della UE quegli stessi
controlli anti-speculazione che vigevano nei vari paesi preunitari fino agli
anni ’80. Anche questo non piace a chi vuole scorazzare liberamente in giro per
il pianeta alla ricerca di ogni occasione speculativa di guadagno a breve ad ogni
(altrui) costo!
4)una volta recuperato il controllo centralizzato del cambio, occorre poi impostare
coerentemente i rapporti con l’esterno della UE, sia quelli mercantili che quelli
valutari.
4a)sotto il primo profilo, occorre innanzitutto comprendere che non è possibile
un sistema-mondo nel quale alcuni paesi sono sistematicamente
esportatori e altri importatori, ma occorre il pareggio tendenziale dei
rispettivi export-import. In secondo luogo, occorre pure comprendere che è
invincibile sul fronte dei costi la concorrenza “sleale” delle multinazionali
delocalizzate in aree del terzo mondo dove producono sottocosto nel massimo
dispregio della natura e dell’uomo con la pretesa di esportare poi nei paesi
sviluppati il 95% della produzione così ottenuta. Bisogna dunque ripudiare il
nostro passato coloniale e giungere gradualmente a più equi rapporti di scambio
con il terzo mondo, magari varando anche un piano Marshall per il terzo mondo
(v. appresso), ma occorre pure, intanto, imporre ai confini della UE adeguati
dazi compensativi da welfare ed ecologia. Lo sviluppo della base produttiva di
ogni singola area non può basarsi sulle esportazioni, ma sulla propria domanda
interna e le esportazioni devono mirare semplicemente a pareggiare le
importazioni necessarie alle produzioni nazionali, in un contesto di accordi
commerciali bi e multilaterali.
4b)sotto il secondo profilo, una volta protetto l’euro dalle fughe di capitali e dalle
speculazioni, occorre anche proteggere le borse. Per farlo, occorre vietare le
scommesse in borsa imponendo il divieto delle transazioni prive di
provvista effettiva al tempo dell’accordo: per vendere delle Fiat, poniamo,
anche se l’esecuzione è differita nel tempo, occorre averle davvero in portafoglio
al momento dell’accordo e per comprarle occorre avere il denaro necessario per
farlo già in quel momento, vietando le promesse di procurarsi denaro e titoli al
momento dell’esecuzione, magari limitandosi a liquidare solo la differenza tra la
quotazione scommessa e quella effettiva nel giorno della esecuzione. In questo
modo si impedisce l’effetto “leva” consentito dal credito alla speculazione e,
quindi, che in pochi istanti possano passare di mano più Fiat “virtuali” di quante
sono le Fiat “reali.” E tassando le cessioni finanziarie operate a breve
distanza di tempo dai rispettivi acquisti ove non collegate a parallele
operazioni “reali”, da un lato si fa finalmente affluire nelle casse dello stato
denaro che fino ad oggi è sfuggito al Fisco, e, dall’altro, si blocca quasi del tutto
ogni speculazione. Ovviamente, il mondo creditizio-finanziario è contrarissimo
alla imposizione di regole al proprio mondo, accampando scuse puerili e
demagogiche avallate autorevolmente dai propri pubblicitari pseudo-liberisti, pur
se non saprebbe indicare nemmeno una ragione concreta perché si dovrebbe
preferire non eliminare dalle borse la speculazione restituendo loro il ruolo
tradizionale di secondo canale di finanziamento per le imprese e di secondo
luogo di impiego per il risparmio delle famiglie.
Ed occorre pure ben considerare la utilità sociale per il proprio territorio e per il
mondo intero della libertà di delocalizzazione aziendale. Quando una impresa si
delocalizza, infatti, sparisce in loco l’impresa, il suo indotto e pure la domanda
espressa dai soggetti penalizzati dalla delocalizzazione, mentre il mercato di
sbocco continua ad essere lo stesso poiché la delocalizzazione avviene in aree
povere, caratterizzate da bassissima domanda interna e da insufficienti o
inesistenti protezioni sociali ed ecologiche. In termini algebrici, la domanda che
si genera nelle aree beneficiate dalla delocalizzazione è pertanto un
sottomultiplo di quella che si perde nelle aree penalizzate dalla
delocalizzazione ed aumenta nel contempo sia lo sfruttamento selvaggio della
natura che quello dell’uomo, poiché le multinazionali che si delocalizzano non si
vergognano nemmeno di mercanteggiare sulle paghe da attribuire ai bambini
sfruttati e di risparmiare il costo della minima protezione ecologica. E’ falso
terzomondismo pietista e ingenuo giustificare questo processo con il proprio
senso di colpa colonialista, poiché due colpe non fanno una giustizia e l’unico
modo sano di sviluppare il terzo mondo è pompare la domanda locale
finanziando questo processo con le risorse finanziarie occidentali e poi
sorvegliare il processo di sviluppo aziendale locale fornendo il know how e
l’assistenza occorrente senza pretendere interessi usurari o la iperremunerazione
dei brevetti occidentali e accettando di importare a prezzi equosolidali
la parte di produzione locale che serve a pagare le materie prime e
l’assistenza necessari al processo.
5)accanto alla riforma della Finanza occorre varare anche una riforma del
credito. Oggi le casse di risparmio sono solo un ramo d’azienda di complesse,
enormi banche d’affari di respiro internazionale che espongono pericolosamente
la raccolta dei risparmi ai rischi delle loro speculazioni e, finchè glielo si consente,
stornano sistematicamente risorse di importanza strategica dai servizi di cassa e
credito alle imprese verso le speculazioni finanziarie a breve termine e verso il
finanziamento usuraio dei debiti pubblici. Queste stesse banche, poi, speculano
massicciamente, insieme a finanziarie e assicurazioni, nel settore immobiliare, ed
hanno quindi un grande interesse a “pompare” artificialmente canoni e prezzo al
mq degli immobili, mantenendoli sfitti e vendendosi reciprocamente immobili al
solo fine di “pomparne” le quotazioni, stornando allo scopo ulteriori importanti
risorse finanziarie dalla economia “reale” verso la economia “virtuale”. Si impone
pertanto la separazione delle casse di risparmio dalle banche d’affari onde
sottrarre la raccolta dei risparmi ai rischi finanziari e togliere nel contempo quanti
più fondi è possibile alla speculazione stessa.
6)alla riforma delle casse di risparmio occorre poi associare la riforma del
controllo del credito. Oggi queste prerogative sono assegnate alla BdI, la
quale è sin dal ’94 una spa e non un ente pubblico, le cui quote, per giunta,
sono oggi detenute al 66% da Unicredit e Intesa, ovvero due delle maggiori
banche che dovrebbe in teoria controllare. E’ per questo che la fissazione del
saggio di sconto e il placet per costi e commissioni bancarie vengono decisi
nell’esclusivo interesse delle banche anziché nel supremo interesse della
nazione come solo la loro attribuzione al Tesoro potrebbe garantire! Nei fatti
accade che oggi, su un PIL calcolato al netto degli oneri finanziari pari a
1.590 Mld (2009), questi ammontano a ben … 130 Mld annui!
7)accanto a questa tremenda emorragia dal mondo del lavoro (imprese e
maestranze, più ceti produttivi in genere) verso la rendita finanziaria, se ne
registra un’altra non meno importante che vede i medesimi beneficiati (le banche)
e i medesimi salassati (imprese, maestranze e ceti produttivi, visti ora come
contribuenti): ben 80 Mld all’anno ci costa infatti il pagamento degli interessi
bancari sul nostro debito pubblico pregresso. Per la precisione, la BCE
presta alle banche gli euro che le richiedono all’1,1%, meno ancora del
tasso di sconto (1,5%), inclusi quelli che utilizzano per acquistare i bond sui
mercati finanziari, dove la loro quotazione è determinata pesantemente dalla
speculazione internazionale, per cui le banche hanno perfino interesse a
scommettere contro sé stesse in quanto detentrici di bot “tossici” onde fare salire
ulteriormente lo spread! Ne consegue che le banche collocatarie del debito
pubblico oggi lucrano per la loro semplice intermediazione oltre il 5% sui
bot italiani e addirittura il 17% su quelli greci! Considerato che i bot acquistati
dai privati sono meno del 5% del totale, basta obbligare la BCE al prestito
diretto a tasso agevolato (tra 1,1% e zero%) ai singoli Tesoro nazionali
perché si alleggerisca corrispondentemente il peso degli interessi bancari
sul debito pubblico dei vari paesi della UE. Nel caso dell’Italia questa
semplicissima riforma comporterebbe un risparmio annuo di quasi 75 Mld su
80, ma, corrispondentemente, una perdita di guadagni di pari importo per le
banche che stanno oggi partecipando al lauto “banchetto”! E si pensi, ancora,
che sommando gli oneri finanziari privati (130 Mld) agli interessi bancari sul
debito pubblico (75 Mld) otteniamo un importo pari a quanto spendiamo
oggi per sanità, istruzione e difesa, ovvero per curare, istruire e difendere
militarmente tutti gli italiani, ma, sembrerebbe, i sodi per le banche si devono
trovare sempre e senza discussioni, mentre sono solo quelli per i welfare che
vanno contratti sempre e comunque!
Per comprendere meglio l’intero fenomeno, oggetto oggi di un sistematico quanto
aberrante depistaggio mediatico, occorre innanzitutto sapere che il debito
pubblico nasce da entrate inferiori alle spese e che, da un lato, le nostre
insufficienti entrate tributarie vengono dalla detassazione dei redditi da
capitale (12,5%) e dei patrimoni (zero%), laddove 1000 persone in Grecia
detengono il 30% della ricchezza greca e appena 400 in America il 40%
abbondante di quella USA, mentre le nostre uscite sono aggravate da sprechi
della casta politico-amministrativa stimati tra 25 e 50 Mld su una spesa
pubblica di 420 Mld. Saputo questo, occorre poi sapere pure che il nostro
debito pubblico registrava dal ’72 all’81 un rapporto con il PIL intorno al
55%, fino a quando, cioè, la BdI, appena resa autonoma dal Tesoro (e quindi
dal Governo e, a cascata, dal Parlamento) prese la decisione di maggiorare
i tassi di interesse, inclusi quelli sui bot, e il nostro rapporto debito/PIL
prese a peggiorare al ritmo del 3-5% annuo, fino a raggiungere il 124% nel
1994 e poi, nonostante finanziarie su finanziarie tutte “lacrime e sangue”,
oscillare fino al 106% e il 120% attuale. Ciò significa che il nostro debito
pubblico viene dalla detassazione dei nostri super-ricchi, dal costo del
sistema di potere che vincola loro i nostri politici e, infine, dal peso
gigantesco degli interessi sul debito che, sommandosi gli uni agli altri,
diventano capitale e schiacciano il paese.
8)Né va trascurato che oggi gli investimenti produttivi che sono mediamente
necessari per produrre tutto il nostro PIL sono una sua quota assai ridotta,
precisamente 80 Mld su 1.590 di PIL netto (2009), ovvero una percentuale
intorno al 5% appena, di cui meno della metà effettuati a credito anziché
con capitali propri, e laddove il PIL è distribuito in modo così sperequato
che i risparmi medi ammontano ogni anno a circa 350 Mld, il 22% circa. Altro
che “fame endemica” di capitali, dunque, poiché invece di capitali ce n’è invece
un eccesso endemico! . Ovviamente, però, mai sui media si leggono simili
informazioni, tanto essi sono appiattiti sugli interessi della elite creditiziofinanziaria
e dei ceti possidenti. Ed infatti non si legge nemmeno che solo i
sacrifici che vengono gravati sui risparmi e sulle rendite non hanno effetti
recessivi, mentre ogni sacrificio che viene gravato sui consumi popolari
pubblici e privati, vuoi in forma di imposte aggiuntive vuoi in forma di tagli
del welfare, provoca una contrazione recessiva del PIL pari ad oltre 4 volte
ogni sacrificio e, poi, una contrazione delle entrate tributarie pari a circa il
40% di questa contrazione, ovvero pari a circa 1,6 volte ogni sacrificio
(sacrifici pari a 100 provocano una contrazione recessiva del PIL pari a circa 4
volte 100, ovvero 400, e quindi, una contrazione delle entrate tributarie pari a
circa il 40% di 400, ovvero 160)!
9)in buona sostanza, il sistema si espande pompando la domanda interna e
lo si contrae contraendo la domanda interna. Per espandere la domanda
interna si dovrebbe trasferire ricchezza dalle fasce alte di reddito
(essenzialmente risparmiatrici) verso quelle basse (essenzialmente
consumatrici) o fare dell’altro deficit-spending avendo cura di tenere bassi
gli interessi bancari. Tutto ciò, però, non conviene ai ceti possidenti ed è solo
per questo che fino ad oggi è stato “fuori dal dibattito”, mentre per la stessa
ragione si pubblicizzano stupidaggini quali quella per cui il risparmio sarebbe il
motore della economia, mentre i consumi frenerebbero gli investimenti produttivi
e provocherebbero inflazione e peggioramento della bilancia commerciale, più
fughe di capitali e crollo di borsa e cambio!
10)per completezza va anche chiarito un ultimo punto, ovvero che il sistema lo
si può espandere anche utilizzando massicce immissioni di moneta “allo
scoperto” per così finanziare una domanda aggiuntiva e conseguentemente
trainare gli investimenti, l’occupazione e il reddito. E’ quanto accade
sistematicamente in ragione dei giganteschi consumi che vengono effettuati da
tutti coloro (privati e imprese “protette”) che ricevono prestiti di favore che
vengono rinnovati a ogni scadenza e della stessa spesa pubblica finanziata con
l’indebitamento. E’ lo stesso che accade quando viene spesa per consumi (di
lusso) parte della capitalizzazione di borsa e dei guadagni di borsa. E’ quello che
accade in tutti i casi in cui viene spesa per consumi pubblici o privati un qualsiasi
tipo di moneta aggiuntiva che sia priva di “copertura”, fosse anche solo moneta
“falsa”. Quella “copertura” che dovesse mancare al momento in cui una
certa moneta viene spesa per consumi sul mercato, essa la acquista
automaticamente man mano che viene concretamente prodotta l’offerta che
la soddisfa e che mai altrimenti sarebbe stata prodotta. E’ questa la vera e
propria “pietra filosofale” del capitalismo! Un sistema a dir poco “originale”
per promuovere investimenti, occupazione e reddito. Un sistema però
efficacissimo. Un sistema da porre sotto assoluto controllo democratico e
non lasciarlo ai privati, com’è oggi. Oggi, infatti, la elite creditizio-finanziaria
controlla la produzione di tutta la gigantesca moneta creditizia e cartolare che il
sistema è in grado di creare grazie alla “riserva frazionaria” e ai mille strumenti
della finanza “creativa”. Si calcola, infatti, che la moneta bancaria in
circolazione ad oggi creata dal sistema potrebbe comprare (senza in realtà
“pagare” davvero) circa 5 volte l’intero pianeta, mentre la moneta cartolare
“allo scoperto” sarebbe ormai oltre dieci volte tanto! Una ristretta elite
internazionale di medioevale memoria non solo controlla le multinazionali
agroalimentari, estrattive, energetiche, industriali e mercantili del pianeta,
accoppiando al tradizionale profitto marxiano (quello da ricarico) i
giganteschi extraprofitti mercantili da incetta di feudale memoria, ma
controlla pure la creazione, distribuzione e spendita di questa moneta “allo
scoperto”, unendo agli extraprofitti neofeudali le enormi rendite feudali
derivanti dalla moneta “virtuale” e decidendo così a piacimento e al di fuori
di qualsiasi dibattito democratico sia la espansione che la recessione, il
loro tasso percentuale e la loro stessa allocazione geografica. Mantenere
questo segreto, come si intende bene, è di capitale importanza. Se si
comprendesse che il sistema si espande aumentando i consumi interni e che
questo si ottiene ridistribuendo in modo più perequato la ricchezza e inondando il
sistema di moneta creditizio-cartolare priva di “copertura” onde finanziare “allo
scoperto” tutta la domanda che serve, gli equilibri politici si sposterebbero
inevitabilmente a sinistra e il dibattito politico verterebbe su quale e quanta
domanda interna così finanziare a fine di sviluppo, mentre verrebbero meno tutte
le ragioni per sfruttare maggiormente, precarizzare e sottopagare i lavoratori, e
smantellare il welfare. Nel contempo, verrebbe meno un intero mondo, il mondo
della elite creditizio-finanziaria, e verrebbe meno anche il suo immenso potere e,
a cascata, il suo articolato ed efficiente sistema di potere, nonchè il suo quasi
perfetto controllo di scienza e media. E’ per questo che si nega ogni effetto
propulsivo alla domanda interna e la si accusa di essere solo inflattiva. E’ per
questo che si nega sistematicamente la volontarietà della inflazione “da
trust” e ci si è spinti fino a sostenere che la scala mobile sarebbe “fattore di
inflazione”, argomento che ha lo stesso pregio del sostenere che sarebbe
l’apertura degli ombrelli la vera responsabile della pioggia! E non si è solo
congelata la scala mobile, ma si è avuto il coraggio di sottostimare
sistematicamente la inflazione di circa 2 o 3 punti percentuali annui, con la
conseguenza che si è così negata la vera recessione in atto e si è nascosto
alla opinione pubblica la progressiva erosione del potere di acquisto di
retribuzioni e pensioni che, nel giro degli ultimi venti anni, si è così
contratto di oltre la metà.
Di che stupirsi, dl resto, se la stessa ricetta che viene suggerita per
contrastare una inflazione di cui si nega ogni volontarietà, la si suggerisce
anche per risanare il debito pubblico e, perfino, per espandere la base
produttiva e dare lavoro ai giovani? Una ricetta che ai ceti possidenti
piacerebbe tanto venisse seguita sempre e comunque, anche in assenza di
inflazione, debito pubblico e disoccupazione, o di qualsiasi scusa: licenziamenti
più facili, precarizzazione generalizzata, liberalizzazioni del mercato del
lavoro, delle professioni e del commercio, privatizzazioni a tappeto, stato
“leggero”, tagli continui di welfare e cassa integrazione per i dipendenti
pubblici “in esubero”, riduzione del prelievo fiscale su profitti e rendite…
RICAPITOLANDO
Il capitalismo non è in sé un sistema autosufficiente, in quanto alla fine di ogni
ciclo la distribuzione è tanto sperequata in rapporto alla efficienza produttiva da
implicare una percentuale di risparmi (22%) assolutamente debordante le
esigenze produttive (5%), per cui residua ogni volta un gap consistente, pari a
circa il 17% del PIL. Questo gap può essere colmato con un saldo attivo
dell’export-import, ma non certo a lungo. Per colmarlo stabilmente, pertanto, nel
medio-lungo periodo si può e si deve scegliere tra 4 soluzioni soltanto:
1)contenere la sperequazione distributiva al fine di spostare risorse dai risparmi
verso i consumi privati; 2)aumentare il prelievo fiscale sui ceti possidenti e
sgravare corrispondentemente i ceti produttivi, onde stornare queste risorse
verso i consumi pubblici; 3)praticare il deficit-spending curando di tenere il più
possibile bassi gli interessi sui bot; 4)praticare una finanza “allegra” pubblica e/o
privata con massicce immissioni di moneta creditizio-cartolare onde finanziare
“allo scoperto” una corrispondente domanda aggiuntiva per consumi pubblici e
privati.
Se il capitalismo funziona anche in presenza del “gap”, dunque, lo dobbiamo alle
immissioni di moneta “allo scoperto” praticate dalla elite che controlla la moneta
creditizio-cartolare, che così decide al di fuori di ogni controllo democratico quale
debba essere il livello di sviluppo, e, conseguentemente, di inclusione ed
esclusione dei lavoratori dal sistema della produzione/distribuzione.
Se consideriamo che 1.590 Mld di PIL vengono prodotti da circa 20 milioni di
lavoratori, l’assorbimento o meno dei 5 milioni di disoccupati restanti
avverrebbe al ritmo di 1 milione ogni 80 Mld circa di PIL, per promuovere i
quali basta un aumento della domanda interna pari a meno di 20 Mld, che, a
sua volta, si può conseguire trasferendo 20 Mld dai 350 Mld di risparmi ai 1.510
di consumi, facendo un deficit-spending aggiuntivo di 20 Mld, o praticando una
finanza “allegra” di 20 Mld.
Ne discende la necessità assoluta della coerente riforma del sistema creditizio,
della borsa e dei rapporti valutari e mercantili internazionali, attuando:
1)la separazione delle casse di risparmio dalle banche d’affari;
2)il passaggio dalla BdI spa al Tesoro dei poteri di fissazione del tasso di
interesse e dei poteri di controllo sulle banche;
3)prestiti diretti a tasso zero dalla BCE ai vari Tesoro dei paesi preunitari di tutti
gli euro necessari alla copertura dei rispettivi debiti pubblici, con creazione di
adeguate strutture comunitarie di coordinamento economico;
4)la sottomissione della BCE al Parlamento europeo e il conferimento a
quest’ultimo dei pieni poteri legislativi;
5)la riforma fiscale nel senso della tassazione progressiva dei redditi da capitale
e dei patrimoni, con corrispondente sgravio dei redditi da lavoro e da impresa;
6)la Tobin Tax sulle transazioni mobiliari e il divieto degli strumenti di finanza
“creativa”;
7)la introduzione ai confini della UE di adeguati controlli valutari anti-speculazione
e anti-delocalizzazione e di idonei dazi compensativi da welfare ed ecologia sulle
importazioni delle multinazionali delocalizzate in aree dove producono sottocosto
nel massimo dispregio della natura e del’uomo;
8)politiche espansive della domanda interna finanziate con il deficit spending e
moneta creditizio-cartolare “allo scoperto”;
9)la introduzione nella UE di indicizzazioni al 100% di retribuzioni, pensioni e
risparmi, nonché del calmiere all’ingrosso e di adeguate misure anti-trust;
10)la svalutazione progressiva dell’euro in misura pari all’eventuale differenziale
di inflazione che residuasse nonostante il calmiere all’ingrosso e l’anti-trust.
In alternativa, se non si riesce a fare convergere su questo programma l’intera
comunità, non resta che invitare i PIIGS alla secessione valutaria e fare loro
l’Europa “dei popoli” con il suo euro “vero”. In mancanza, non resta che la
secessione valutaria dei singoli paesi che condividono questo progetto espansivo
in regime di inflazione controllata e moneta “debole”.
www.circolodegliscipioni.org