I creditori europei di Lehman Brothers hanno ottenuto più del 100% del proprio capitale. Dov’è l’insolvenza di quella che era all’epoca -2008- una delle principali banche d’affari americane e mondiali, insolvenza invece, sempre allora, dichiarata e che ha provocato la maggiore crisi finanziaria ed economica della storia, crisi non ancora risolta? Già subito dopo la scoppio della crisi apparve chiaro che la crisi stessa poteva essere evitata e che il mancato intervento pubblico dipese da una sottovalutazione del coinvolgimento delle banche d’affari nel mercato esplosivo degli strumenti derivati, ed infatti l’intervento pubblico fu realizzato subito dopo per evitare il coinvolgimento delle altre banche e il crollo del mercato. Ma adesso si sta rivelando che la crisi doveva essere evitata, e conseguentemente che si è trattato non solo di sottovalutazione ma di qualcosa di peggio. Non si tratta di riprendere le ipotesi di una persecuzione a danno di una banca d’affari ostile alla Presidenza Bush, ipotesi che anche ad ammettere che non sia non essere completamente fantasiosa, non può che riguardare un dettaglio, un elemento di completamento, e non il cuore. Il punto è un altro: che il disastro fosse evitabile non è mai stato francamente in dubbio. Che Bush e Greenspan siano stati sprovveduti è sempre stato pacifico: era ovvio che avessero trascurato l’effetto trascinante del dissesto di una delle grandi banche d’affari, ritenendo in modo superficiale e infantile che tale effetto di trascinamento fosse limitato alle banche ordinarie per l’effetto perverso sui depositi: ciò per una mancata visione della situazione dei derivati. Ma ciò non sembrava ascrivibile, se non in termini di completamento, a qualche particolare disegno: sembrava piuttosto un effetto della sbornia di liberismo che portava in Italia un commentatore acuto quale Zingales ad esultare il giorno dopo il dissesto di Lehman Brothers, per il trionfo del liberismo, che era in grado di espellere dal mercato un operatore insolvente, anche se grande banca, minimizzando gli errori compiuti in materia di “mutui sub-prime” e derivati (in un clima che aveva visto nei due anni prima Alberto Alesina e Francesco Giavazzi esaltare l’America ben superiore all’Europa per l’adesione incondizionata al liberismo, e anche dopo il disastro li ha visti fino ad adesso minimizzare il disastro, considerato una mera battuta d’arresto), per poi chiedere scusa una volta resosi conto del trascinamento.
Adesso, sembra che si possa arrivare a conclusione diversa e che il dissesto era in effetti tale con la conseguenza che un’ipotesi dolosa non può essere più trascurata. Ed allora, cambia tutta l’impostazione dell’approccio alla crisi finanziaria ed in particolare cadono (alcuni de)i presupposti su cui si è basata l’analisi di chi scrive. In sintesi, l’analisi di chi scrive: la crisi finanziaria è dovuta alle cause di funzionamento del sistema, ed è una crisi così endogena e non esogena. Ed è stupefacente che non si sia usciti dalla crisi ed in particolare che non si sia usciti perché non si è provveduto a correggere incisivamente, in senso sociale ed antiliberista, le leggi di funzionamento del sistema. Ciò perché il capitale, inefficiente e rovinoso, è fortissimo e può tutelare e difendere il sistema da fattori estranei. Questa divaricazione tra efficienza e forza è l’elemento caratterizzante della crisi ed è nel contempo la ragione del mancato risanamento. Tale analisi viene confermata nella parte centrale, ma riceve due elementi di novità non facilmente assorbibili. La crisi è governabile dal capitale così bene che può addirittura crearla a proprio piacimento: pertanto, la sua capacità di gestire le dinamiche economiche e di non farle sfuggire dal proprio controllo è molto maggiore di quanto previsto da chi scrive. Ciò non incide sulla divaricazione tra forza ed efficienza, in quanto sono dinamiche sempre disastrose, ma addirittura rafforza la mancanza di oggettività delle dinamiche economiche, facilmente manovrabili. Ciò non autorizza a trarre la conclusione che l’economia può essere diretta da una politica di segno opposto, in quanto il punto di aggressione non è facilmente individuabile. Né autorizza la conclusione di fornire centralità al complotto del capitale, in quanto al contrario occorre incentrarsi sulla capacità di gestire tutte le dinamiche economiche senza contrasto ed opposizione apprezzabili.
Rispetto alla conclusione di chi scrive, l’ipotesi di un riformismo per correggere le dinamiche inefficienti viene smentita del tutto, in quanto le dinamiche non sono aggredibili “ab externo”, e sono invece controllabili dal capitale. Il dominio assoluto del capitale con la mancanza di possibilità di intervento ed addirittura con la non riformabilità del sistema è il dato da cui occorre partire, e se smentisce ipotesi riformiste, non autorizza ipotesi rivoluzionarie. Il dominio incontrastato del capitale è il dato fondamentale che la sinistra deve essere in grado di affrontare. Il secondo elemento di novità è non la semplice incapacità del capitale di risolvere al crisi alla luce della sua inefficienza, ma la sua volontà di creare e mantenere la crisi, in quanto necessaria per mantenere soggiogate le classi antagoniste e per mantenere saldamente il controllo della situazione. Ciò vuol dire che il capitale è entrato in una fase di destabilizzazione continua e da questa destabilizzazione occorre partire per un intervento, questa volta veramente innovativo, vale a dire ben più che riformista ma sempre meno che rivoluzionario.