I recenti risultati elettorali sembrano segnare anche in Italia la fine della sinistra. La sinistra in tutte le sue declinazioni (socialisti, socialdemocratici, formazioni varie, come Podemos, etc.) governa ormai pochissimi stati, per lo più periferici (Portogallo, Nord Europa). Solo in Gran Bretagna il riformato Labour Party di Corbin sembra in grado di proporsi alla guida del paese. Un quadro siffatto comporta che la riflessione sul declino della sinistra non può essere circoscritta a singole deficienze dei gruppi dirigenti o ai personalismi di Renzi per quanto riguarda l’Italia, ma a qualcosa di più profondo e radicale: un cambiamento economico, culturale e sociale del quale la sinistra non ha saputo leggere la portata e non ha trovato, per conseguenza, risposte e progetti adeguati. A nostro parere, le cause vanno ricercate proprio nei cambiamenti dei paradigmi economici e nella crisi della politica. Come sempre, è problematico distinguere bene tra l’aspetto strutturale e quello sociale e dell’intermediazione politica; ma bisogna avviare questo sforzo se si vuole provare a ricostruire una proposta di sinistra di classe. I paradigmi economici Negli ultimi cinquant’anni si è consumata la sconfitta dei lavoratori a vantaggio del capitale. Per avere una conferma a questa affermazione bastano due numeri: nel mondo occidentale, a prescindere dalla specificità dei singoli paesi e delle condizione di lavoro, la quota dei salari sul Pil è scesa da poco meno del 60% a circa il 42%, come si vede nella seguente tabella Una riduzione drammatica, che ha comportato non solo la perdita salariale, ma, per così dire, di stato e di ruolo della classe operaria. Non più partecipe della produzione e della distribuzione della ricchezza, non più un soggetto con piena rappresentanza sindacale, ma ridotto a fattore di costo, come i recenti casi di delocalizzazione stanno dimostrando. L’accumulazione di ricchezza finanziaria ed il suo dominio su tutto il ciclo del lavoro, che rimane in ultima analisi l’unico vero produttore di ricchezza reale, vale a dire di bene e servizi per le persone e fondamento ineludibile anche di quella ricchezza finanziaria di cui si è detto. Purtroppo la sconfitta del mondo del lavoro sembra rovesciare nel senso comune, o meglio nella comunicazione economica così come è confezionata, questo assioma di base; per cui sembra quasi che la ricchezza finanziaria sia così buona da elargire qualche briciola ai lavoratori, mai abbastanza produttivi, mai abbastanza responsabilizzati, mai abbastanza preparati. È più importante trasmettere le notizie di borsa piuttosto che quelle dell’economia reale perché le borse misurano gli indici di gradimento dei cosiddetti mercati, vale a dire delle strutture internazionali che concentrano ricchezze finanziarie enormi e possiedono una parte consistente del debito pubblico di vari paesi.
La crisi della politica
La cornice economica abbozzata in precedenza ha avuto forte ricadute anche sui sistemi di rappresentanza e mediazione. La finanziarizzazione dell’economia è per sua natura fortemente globale. In sostanza i detentori di capitale finanziario agiscono in tutto il mondo e vivono le legislazioni e la presenza degli stati come un vincolo da aggirare o come un’opportunità da sfruttare. In buona sostanza la finanza è in grado di intervenire non solo su ciascun bene/servizio/risorsa naturale esistente, ma anche sulle politiche degli stati. In questo modo accade che gli stati nazionali non riescono a svolgere in autonomia le loro politiche perché per prima cosa devono garantirsi il gradimento o almeno la neutralità delle istituzioni finanziarie e possono farlo solo assicurando loro un ritorno economico. Purtroppo le istituzioni finanziarie non si fanno carico dei problemi sociali perché essi non rientrano nei loro fini istituzionali. Gli stati, invece dovrebbero, ma, di là di inefficienze e corruzioni, non hanno risorse adeguate perché dipendono dalla bontà della finanza per contrarre o alimentare il loro debito; e, come detto prima, la finanza non si preoccupa se deve essere chiuso un ospedale, se devono essere ridotte le pensioni, e cosi via. Il primo grande sistema di rappresentanza, gli stati, è dunque sostanzialmente in crisi; tanto che, come dimostra lucidamente Baumann, nasce un sentimento che definisce come Retrotopia, vale a dire immaginare che gli stati prima della globalizzazione garantissero ai cittadini sicurezza fisica e sociale. Forse l’affermazione della Lega e persino quella dei Cinque Stelle da noi possono essere facilmente iscrivibili in questo sentimento. Ed altrettanto facilmente si capisce il declino dei partiti di sinistra e persino di quelli liberali. Naturalmente, tutti gli altri sistemi di rappresentanza all’interno degli stati, vale a dire i partiti ed i sindacati in primo luogo, riflettono ed ampliano questa incapacità sia di rappresentare gli interessi materiali dei cittadini e dei lavoratori sia di svolgere la loro naturale funzione di mediazione tra questi interessi e quelli generali dell’insieme della comunità nazionale, proprio perché sono venuti meno questi ultimi, senza che nel frattempo si costituissero organismi politici più generali capaci di svolgere le funzioni tipiche degli stati. Il processo di unificazione europea ne è una dimostrazione plastica. In qualche modo siamo alle soglie di un fenomeno di ritorno al medioevo politico, nel quale convivono aggregati tendenzialmente universalistici, il famoso impero, ed aggregati locali, che teoricamente ne fanno parte, ma che sono in competizione prima di tutto tra di loro. Purtroppo gli imperi possibili non sono solo grandi aggregati territoriali, che sono anch’essi relativamente fragili, ma soprattutto finanziari. È ad essi che si rivolgono o rischiamo di rivolgersi gli aggregati locali, bypassando le appartenenze geografiche. La possibilità che questo processo si affermi è facilitata dalla crisi sociale alimentata incessantemente sia dalla riduzione del welfare sia dalla riduzione del reddito da lavoro; il che vuol dire che anche i fortunati che hanno un lavoro sempre più spesso non sfuggono al rischio di povertà. Dunque crisi delle istituzioni di rappresentanza per in verso e fragilità sociale per l’altro. Il processo è in atto, per cui l’unica nota di speranza è che può essere arrestato o indirizzato in modo diverso, a condizione di trovare soggetti capaci di farlo. Per dire il vero fenomeni di resistenza sono largamente diffusi ma, sinora, non in grado di connettersi tra loro e dare un indirizzo preciso. In questo senso una rilettura storica della situazione dell’Europa prima degli stati nazionali sarebbe assai utile. La politica sarebbe più che mai necessaria, dunque, ma essa è diventata la cosiddetta anatra zoppa. Appare e tutti la citano, ma, incapace di muoversi agilmente, proprio come l’anatra zoppa, non sembra produrre risultati. Inutile dire che al capitale finanziario, che a sua volta non è un’entità univoca, conviene che l’anatra sia zoppa ed anzi che perda del tutto la sua capacità di sopravvivere. Al disarmo della politica si è giunti utilizzando anche un’arma molto efficace: la messa sotto accusa di corruzione di governanti o di intere classi politiche, che, consapevolmente o inconsapevolmente, costituivano un argine alla globalizzazione. Quest’arma è particolarmente insidiosa perché non ha bisogno di portare prove e perché erode la fiducia verso la politica. Un esempio recentissimo: i Cinque Stelle, che l’hanno cavalcato a lungo soprattutto contro il PD, si rivolgono allo stesso PD, cioè ai corrotti, per formare un eventuale governo. Inutile dire che se ciò accadesse, tutti a cominciare di Cinque Stelle dovrebbero dire che accadrebbe per l’interesse alle poltrone. Ci sono, ovviamente, molti altri esempi storici di portata maggiore: dalla scomparsa dei pochi leader africani, ed oggi vediamo come è ridotta l’Africa, a quella che ha riguardato le classi dirigenti dei paesi che facevano parte dell’area dell’ex sovietica, ed anche in questo caso le conseguenze sono evidenti; dalla penisola balcanica, la Serbia prima di tutti, ai paesi arabi del nord Africa con le famose primavere. Il fenomeno non è finito ed investirà, in parte lo ha fatto già, quelle situazioni, Russia, Cina, India, Brasile percepite in qualche modo come ostacolo alla globalizzazione finanziaria. Solo che in Russia e in Cina si scontra con apparati più forti, al cui interno il potere politico è molto consolidato. Lo screditamento della politica è stato perseguito lucidamente dal capitale finanziario. Questo non vuol dire che casi anche lampanti di corruzione non ci siano stati e non ci siano; ma invece che esser perseguiti dalla giustizia penale sono stati utilizzati per liquidare o almeno ridurre drasticamente la capacità della politica di mediare tra interessi diversi, compresi quelli del capitale. Insomma si è buttato il bambino insieme all’acqua sporca. La caduta della politica non ha comportato che sparisse la corruzione; al contrario l’ha fatta crescere considerevolmente perché è venuto meno il controllo che i partiti riuscivano ad esercitare.