IL CAMBIO
Del cambio il P.U. spiega che esprime il “prezzo” della valuta nazionale in rapporto al “prezzo” delle altre valute e che si distingue tra cambi fissi e cambi variabili, laddove il cambio può essere lasciato al libero incontro della Domanda e Offerta di una certa valuta (ancghe solo speculative) sui mercati internazionali, può essere concertato tra vari paesi o essere ri-fissato d’autorità da un singolo paese in funzione delle sue decisioni di politica commerciale.
Quando si opta (come si è fatto a Maastricht) per la più assoluta “deregulation valutaria”, l’afflusso e il deflusso di Capitali da e per la UE comporta una corrispondente variazione della Domanda e dalla Offerta di euro sulle varie borse, che, insieme al flusso parallelamente generato dalle transazioni mobiliari speculative, fa variare in più o in meno la “bilancia dei pagamenti”. Sommando a queste variazioni anche quelle determinate dalle transazioni valutarie contro-merci (L’Export-Import effettivo), che si registrano nella così detta “bilancia commerciale”, abbiamo l’importo assoluto della domanda e della Offerta di euro ed è questo che determina il suo prezzo, ovvero il valore del cambio in ogni momento.
Va però saputo che già solo le multinazionali hanno in portafoglio più valute di quante ne posseggano di riserva tutti gli stati del mondo messi assieme e che grazie alla liceità del credito alla speculazione si realizza un “effetto leva” che consente di mimare vendite e acquisti decine di volte maggiori rispetto al Capitale impeigato,il che ha consentito, ad esempio a Soros, di materializzare dal nulla circa $ 500 Mld per scommettere improvvisamente al ribasso nel ’94 contro lira, sterlina irlandese e peseta, travolgendo qualsiasi difesa nazionale e inter-statale. Ne discende che se si opta per la deregulation non è più possibile approntare nessuna difesa contro il cambio della propria valuta se non quella che consiste nell’adottare le sole scelte “gradite” ai detentori di cespiti mobiliari, e, dunque, come vedremo, scelte di privilegio fiscale verso i redditi da Capitale e i patrimoni e manovre deflattive (anti-inflazione), le quali, implicando tagli dei Consumi interni pubblici e privati, sono necessariamente anche recessive.
Il P.U. sostiene quindi che simili scelte risponderebbero anche all’interesse collettivo in quanto farebbero affluire Capitali dal resto del mondo “pompando” euro e borsa, mantenendo nel contempo bassa l’inflazione e basso il saggio di interesse. Se ne avvantaggerebbe la competitività internazionale (pur “stracciona”) delle nostre imprese, mentre un basso saggio di interesse renderebbe meno gravoso il peso degli interessi passivi sul debito pubblico pregresso e il costo degli Investimenti. L’euro “forte”, infine, sarebbe un grande vantaggio perché renderebbe più a buon mercato i viaggi all’estero e le Importazioni necessarie quali gli acquisti di materie prime ed energia.
Per l’assoluta inconsistenza scientifica di questi argomenti si rimanda alle corrispondenti voci della sezione “come funziona davvero l’economia”. Qui basti fare mente locale su due questioni: 1)che per economie di trasformazione quali quella italiana, l’euro “forte” è un vero boomerang perché rincara sul fronte dei prezzi il made in Italy molto di più di quanto lo renda meno costoso il minore prezzo pagato per le materie prime e l’energia, facendo peggiorare continuamente il saldo della bilancia commerciale; 2)per mantenere invariata la competivitià relativa di due paesi a diversa inflazione interna, basta optare per il regime dei cambi concertati e svalutare il cambio della valuta del paese a più alta inflazione in misura pari al differenziale di inflazione.
Per le politiche alternative praticabili si rimanda alla medesima sezione ed alla sezione “l’alternativa per un capitalismo sostenibile”